Critica

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Progetto per una mostra
Espressionismo siciliano


Sergio Spadaro

 

1.      Caratteri dell’Espressionismo storico
 

Uno degli antecedenti dell’Espressionismo tedesco degli inizi del Novecento è da vedere  in quella “tendenza anti-impressionista che si genera in seno all’Impressionismo stesso come coscienza e superamento del suo carattere essenzialmente sensorio e che si manifesta sul finire dell’Ottocento con Toulouse-Lautrec, Gauguin, Van Gogh, Munch, Ensor” [G.C.Argan, L’arte Moderna, Sansoni, FI 1990]. Altre sollecitazioni e fonti sono però da vedere nella stessa cultura della tradizione tedesca, ad esempio “nella grafica e nello Jugendstil nel complesso. Rimontano alla scoperta della forza espressiva della scultura primitiva, della pittura contadina su vetro o della xilografia medievale. […] Né è da dubitarsi, infine, che la filosofia e la letteratura ottocentesche abbiano fatto da madrine all’avvio verso il nuovo, così come Friedrich Nietzsche e i pensatori ‘anticlassici’, che anticiparono le tematiche della volontà e del Wollen, dell’atto creativo” [Joachim Büchner, Espressionisti dal museo Sprengel di Hannover, Mazzotta, MI, 1984]. Infine, “uno dei motivi che confluisce nell’arte e nella cultura tedesca che hanno dato origine all’Espressionismo è quello dell’Ur-schrei, il “grido originario”, cioè quello di una visione interiore della vita nella quale l’uomo ricerca se stesso e l’autenticità di un’esistenza veramente libera, come già espresso da Meister Eckart condannato come eretico nel 1329” [Luigi Rognoni, Introduzione a Arte tedesca fra le due guerre di Waldemar Jollos, Mondatori, MI, 1955]. A quest’ultimo riguardo tutti conoscono il dipinto del norvegese Edward Munch del 1893, intitolato L’urlo (Skrik), che può “essere indicato come un vero manifesto dell’allucinazione espressionista”.

“Letteralmente espressione è il contrario di impressione. L’impressione è un moto dall’esterno all’interno: è la realtà (oggetto) che s’imprime nella coscienza (soggetto). L’espressione è un moto inverso, dall’interno all’esterno: è il soggetto che imprime di sé l’oggetto. […] La deformazione espressionista non è la caricatura della realtà: è la bellezza che, passando dalla dimensione dell’ ideale a quella del reale, inverte il proprio significato, diventa bruttezza ma sempre conservando il suo segno di elezione. […] Il brutto non è altro che un bello caduto e degradato. […] Soltanto l’arte, come lavoro puramente creativo, potrà compiere il miracolo: riconvertire in bello quello che la società ha pervertito in brutto. Da qui il tema etico fondamentale della poetica espressionista: l’arte non è soltanto dissenso rispetto all’ordine sociale costituito, ma volontà e impegno di mutarlo. E’ quindi un dovere sociale, un servizio a cui si adempie” [G. C. Argan, L’arte moderna, citato].

Due sono i gruppi pittorici che stanno all’origine dell’Espressionismo: uno figurativo e l’altro che porterà all’astrazione non geometrica. Il primo, Die Brücke (Il ponte), sorse a Dresda fin dal 1903 su iniziativa di Ludwig Kirckner, Fritz Bleyl, Karl Schmidt-Rottluff ed Erich Heckel; ai quali si uniranno nel 1906 Emil Nolde, Max Pecstein e, nel 1908 e nel 1910, Kees Van Dongen e Otto Müller. Il gruppo da Dresda si spostò a Berlino nel 1911, ma si sciolse definitivamente nel 1913. Nella Brücke “due sono i temi dominanti: la figura umana e l’ambiente che la circonda, paesaggio e natura, città e architettura urbana” [Joachim Büchner, Espressionisti dal museo Sprengel di Hannover, citato]. Sotto un aspetto più propriamente pittorico, “negli artisti della Brücke c’è un progressivo rifiuto della spazialità in nome della strutturazione bidimensionale, nel valore timbrico del colore piatto, nel linearismo grafico” [Lara-Vinca Masini, L’arte del Novecento, Editoriale L’Espresso, RM, 2003].

Il secondo gruppo, Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), nacque a Monaco nel 1911, con Wasilj Kandinskij, Gabriele Münter, Franz Marc; ad esso aderirono Alexej von Jawlensky, August Macke ed Heinrich Campendorck, Alfred Kubin, Paul Klee e, nel 1913, Lyonel Feininger.

Pur non appartenendo ad alcun gruppo, non si possono non citare gli austriaci Egon Schiele e Oscar Kokoshka, che “spingono alle estreme conseguenze l’interiorità romantica, portandola alla decomposizione della forma sino a riassumere il barocco come accesa scrittura psicologica” [Luigi Rognoni, Introduzione, citato]. Nel 1912 escono il famoso fascicolo Der BlaueReiter, curato da Kandisnskij e Marc, e del primo uno dei più importanti documenti dell’arte moderna e dell’Espressionismo in particolare, Della spiritualità nell’arte (Uber des Geistige in derKunst).

Mentre la pittura della Brücke “assume il carattere di una acutizzazione psicologica dell’oggetto che l’artista filtra nella propria esperienza, con libertà istintiva, […] quella del Blaue Reiter parte invece da una rivolta totale, ponendo l’accento sull’immediatezza spirituale della vita interiore, come grido di liberazione dal terreno e dal fisico sino a giungere poi con Kandisnskij all’armonia di un nuovo ordine spirituale nella forma astratta” [Luigi Rognoni, Ibidem].

In estrema sintesi e guardando ai movimenti artistici cui daranno vita, “si identificano così due filoni dell’Espressionismo: il primo, scaturito dalla Brücke (e con varie componenti: dal Futurismo al post cubismo picassiano fino al Dadaismo, al Surrealismo e anche alla Metafisica), porterà alla Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit) degli anni Venti e Trenta, all’espressionismo realista messicano postrivoluzionario (Rivera e Siqueiros) e al Realismo sociale europeo del secondo dopoguerra. Il secondo filone, che si origina dal Blaue Reiter, darà il via a tutte le esperienze non figurative, sia nella forma astratto-concreta e geometrica, che si originerà dal concretismo di Malevič e degli stessi strutturalisti e formalisti russi e dal Neo-plasticismo degli olandesi Mondrian e van Doesburg (anche se filtrato dal Cubismo), sia nelle forme che si svilupperanno nell’Espressionismo astratto americano e nell’Informale europeo del secondo dopoguerra” [Lara-Vinca Masini, L’arte del Novecento, citato].

Per quanto riguarda la Neue Sachlichkeit, va precisato infine che essa “abbandona l’individualismo espressionista e assume, nei letterati e nei pittori, una posizione critica di fronte alla società tedesca. L’osservazione è portata al realismo crudele che si acutizza fino all’allucinazione ‘fiamminga’ di un Otto Dix e al violento atto d’accusa contro la borghesia e il militarismo nell’atroce disegno di un George Grosz. Maggiormente legato all’esperienza espressionista, Max Beckmann volge a un realismo che sembra riallacciarsi alla pittura tedesca del sec. XV, e appare a Waldemar Jollos “capace di condurre dalla smorfia al simbolo” [Luigi Rognoni, Introduzione, citato].
 

2. Louis Christian Hess espressionista in Sicilia

LOUIS CHRISTIAN HESS (Bolzano 1895 – Schwaz 1944) è da considerare come il precursore – almeno in senso ideale – dell’Espressionismo siciliano, anche se le sue opere hanno cominciato ad essere conosciute ed apprezzate solo a partire dal 1974, cioè dalla prima retrospettiva tenuta a Palermo. Formatosi a Innsbruck e a Monaco, dove frequenterà l’Accademia, compie nel 1925 il primo viaggio in Sicilia, dove vive la sorella Emma sposata con un commerciante di Messina. Da allora la Sicilia sarà la sua meta abituale e, come dice Carl Kraus nel catalogo per la mostra di Schwaz e Bolzano del 2008-09 (Ed. Athesia, BZ), costituirà una svolta anche per la sua pittura: “Bastano le prime impressioni ad aprire al pittore un mondo del tutto nuovo, fatto di gente immersa nelle proprie antiche tradizioni, di un paesaggio in cui pulsano i miti classici, della incomparabile luce mediterranea. Hess scrive agli amici rimasti in Germania di aver trovato il paradiso […]”.

Proprio per la diversità di ispirazione e di esiti che l’opera di Hess presenta, converrà tenere distinte le due fasi. In quella presiciliana, quasi tutta la critica concorda che Hess manifesta affinità e contatti soprattutto con la pittura di Karl Hofer e di Max Beckmann. Per il primo, è da tenere presente che anche Hess fece parte dei pittori cosiddetti Jurifreie (i Fuorigiuria), che si erano affiancati a quelli del Novembergruppe, operanti fin dal 1918. In Arte tedesca fra le due guerre [citato], un testimone come Waldemar Jollos recensisce le loro mostre del 1924, del 1925 e 1929, che si erano tenute tutte al Lehrter Bahnhof di Berlino. E poiché Hofer – di cui Jollos apprezza “i tentativi di giungere a una nuova architettura del disegno” – partecipava a queste mostre, è evidente che i contatti con Hess erano avvenuti per tale tramite. Comunque, poi Hofer farà una mostra di quadri astratti nel 1933 (alla Galleria Flechtheim di Berlino) e con ogni probabilità anche l’influsso se non vero e proprio “astratto”, di gusto astrattizzante, di certi quadri di Hess è probabile che derivi da lui  (ved. Case rosso-nero del 1933 o Composizione del 1937).

Ma è con Beckmann che la pittura di Hess mostra maggiori affinità. Già Carl Kraus, nel catalogo succitato, riproduce l’Autoritratto con sassofono di Beckmann del 1930 e si può vedere subito l’affinità tematica con Prova al concerto n° 2 di Hess, del 1928/1930, dove ci sono due suonatori di fagotto, uno stante e uno seduto dietro a un leggio. Il cromatismo nero e angoscioso di Beckmann è poi richiamato ne Il giocatore di scacchi del 1931. Anche se sarà l’oggettualismo della realtà, discendente dalla Neue Sachlichkeit di Beckmann, a influenzare maggiormente Hess. Come dice Flavio Caroli, in occasione della grande retrospettiva di Beckmann tenutasi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma del 1996, “ricchezza del visibile, cioé dell’infinità dei fenomeni, e ricchezza del mistero che li anima, come d’altronde scrive, con qualche brutalità, l’artista stesso: ‘Si tratta sempre di cogliere la magia della realtà e di tradurre questa realtà nella pittura. Rendere visibile l’invisibile attraverso la realtà. Forse questo può suonare come un paradosso, ma è proprio la realtà che costituisce il vero mistero dell’esistenza’ “ [Ricchezza del visibile, “Il Sole/24 Ore” del 25.2.1996].

Prima di passare alla fase siciliana della pittura di Hess, non si può non notare come la tematica dei suoi quadri, in Germania, resti tipicamente vincolata a un’ispirazione cittadina, rappresentata dagli “interni” della gran quantità di opere con le “modelle” (Baronessa con veletta, Donna con cappello nero, Donna allo specchio del 1930; Dalla modista, Tre modelle, Due modelle, Modella nell’atelier con pelliccia di volpe, del 1932).

A quale “ricchezza” perverrà Christian Hess in Sicilia è facile constatare dalla visione delle sue opere. Innanzitutto, la solarità della luce mediterranea schiarirà anche la sua tavolozza. Abbandonati gli “interni” borghesi, passerà subito a un diretto contatto con la natura e con le persone della quotidianità lavorativa (contadini, pescatori, muratori, ecc.). A cominciare, fin dalla sua prima venuta a Messina, con quell’Asinello e fichidindia (1925) che può essere assunto a emblema della sicilianità dei suoi tempi: già, perché ai tempi di Hess uno dei mezzi di trasporto consueti era ancora l’asinello (ved. l’acquarello del 1930 Donne sull’asino). Il paesaggio dello Stretto sarà poi trasposto in vari modi (Veliero e case del 1931, Veliero sullo Stretto del 1933, Piccioni sulla terrazza del 1933, Agave, Kleine Terrasse e Antonia e veliero del 1934, Paesaggio con binari e bandiera del 1935). Non si contano le opere dedicate alle “barche”, ai “pescatori”, ai “bagnanti”. Persino le nature morte, attraverso l’emblematicità caratterizzante degli oggetti rappresentati, alluderanno alla natura siciliana: Balcone in Sicilia del 1928 (con due peperoni e piante grasse tipiche siciliane), Aguglie sulla fruttiera del 1933 (ma i pesci tipici dello Stretto sono poi raffigurati in uno splendido acquarello e in un disegno), Natura morta con la Gazzetta (dove ci sono due melanzane bianche tipiche del clima locale) del 1933, Natura morta con quartara (con i peperoni contorti) del 1933, o in quelle due nature morte di gusto quasi cubistico del 1935 (con Fiasco e pere e con Asso di fiori). Anche i personaggi popolari del tempo saranno raffigurati, come L’indovino del 1933 e Ladro e Carabiniere del 1934: e persino, a prova dei contatti e della comunanza che egli aveva con la gente del luogo, nell’Autoritratto come pescatore del 1933 (Hess si raffigura in primo piano, nell’atto della “voga”, come si usava nello Stretto). 

Durante i soggiorni e la permanenza in Sicilia, Hess ebbe anche modo di recarsi a Palermo, a Monreale, all’Aspra, a Siracusa e Agrigento, perché ricercava sempre – come peraltro ha fatto a Firenze o Napoli – le “fonti” classiche. E ciò viene rispecchiato nella sua pittura, come si può vedere in Torso giacente del 1928, Figure mitologiche del 1930 o persino nell’inchiostro del 1938 dove una modella è ripresa come Mùtila. In tale ottica di riscoperta della classicità vanno anche visti certi dipinti con gli antichi monumenti di Messina (Nettuno del 1927, con la statua del Montorsoli abbinata alle ciminiere e ai boccaporti dei rimorchiatori, e Donne di Messina del 1933, dove il monumento a Don Giovanni d’Austria fronteggia la normanna, ma rimaneggiata nel 1200, Chiesa dei Catalani).

Che tra gli ideali di Hess non ci fosse soltanto l’individualità romantica espressionista, ma lo stesso umanesimo classico di Goethe, lo si può dedurre da un richiamo che egli fa nell’opera Il riposo dei muratori del 1929: qui la figura in secondo piano poggia il braccio su un cippo e si regge con la mano la testa pensosamente. E’ un espresso richiamo alla posa nella quale fu ritratto Goethe da J. H. Tischbein nel 1787. D’altra parte Hermann Bahr, tra i primi teorici del movimento espressionista, si riferisce a Nietzsche (Nascita della tragedia, 1871) ma anche a Goethe:”L’uomo è andato oltre Nietzsche, o meglio, è tornato a Goethe; ma non si accontenta più che l’arte ‘abbellisca’ la vita o ‘nasconda’ o trasfiguri il ‘brutto’, vuole che porti essa stessa la vita, la crei da sé, come l’atto primigenio dell’uomo. La pittura, dice Goethe, rappresenta quello che l’uomo potrebbe e dovrebbe vedere, non quello che l’uomo comunemente vede” [H.Bahr, Expressionismus, Monaco, 1916].

Louis Christian Hess, che ha avuto un’esistenza tragica e travagliata, tra difficoltà economiche e il clima dittatoriale politico che lo spinse tante volte e espatriare (anche le sue opere furono bruciate nei roghi nazisti dell’entartete Kunst), e che purtroppo finì la sua breve vita in conseguenza dei bombardamenti angloamericani su Innsbruck, riuscì malgrado tutto a portare a compimento i suoi ideali artistici in maniera personalissima e originale, al punto che si può affermare che egli, al contrario di tanti altri suoi sodali della pittura, trovò “la conclusione dialettica e conclusiva della contraddizione storica di classico e romantico, intesi come ‘costanti’, rispettivamente, di una cultura latino-mediterranea e di una cultura germanico-nordica” [G.C.Argan, L’arte moderna, citato].
 

3.      La triade postbellica del realismo sociale

Ci sembra giusto prendere le mosse da quella triade di pittori che, a partire almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, era indicata come maggiormente rappresentativa di quella tendenza della arte italiana denominata “realismo sociale”: Renato Guttuso, Giuseppe Migneco e Saro Mirabella. Pittori che, in sede politica, erano compagnons de route del più grande partito organizzato del movimento operaio, il P.C.I. (Guttuso addirittura fece parte dei suoi organi direttivi e affiancò sempre, in sede critico-teorica, la stampa di tale partito). Peraltro, come fa Luciano Caramel, è opportuno ricordare pure che Roman Jakobson, già nel 1921, metteva in guardia sull’ambiguità e non definitorietà del termine “realismo”, perché “teorici e critici dell’arte non giungono a distinguere i vari concetti che si celano sotto quell’etichetta, li trattano come un sacco che si possa allargare a dismisura per fargli contenere qualunque cosa” [Prefazione a Renato Guttuso, opere Fondazione Francesco Pellin, Mazzotta, MI, 2005].

RENATO GUTTUSO (Bagheria [PA] 1912 – Roma 1987), che di quella triade fu la punta di diamante,firmò già i primi dipinti nel 1924, dodicenne. Agli inizi seguì in parte il pittore futurista sui generis Pippo Rizzo e la sintesi “novecentesca”, ma ebbe anche modo di guardare ai pittori di carretti del suo paese natale e fu forse grazie a tale formazione che l’elemento “popolare” nella sua arte rimase sempre presente. A metà degli anni Trenta peraltro – come afferma Enrico Crispolti, che dell’opera di Guttuso si può considerare il massimo conoscitore e il più esauriente descrittore – “già costituisce il ceppo originario e fondamentale della propria poetica: la poetica realista o poetica della naturalezza [in R.Guttuso, opere Fondazione Francesco Pellin, Ibidem]. Crispolti, che ha curato un Catalogo generale dei dipinti guttusiani in quattro volumi [Mondatori, MI, 1983-1989], suddivide l’opera del pittore in cinque periodi (“formazione”fra gli anni Venti e Trenta, “realismo espressionista”nei primi anni Quaranta, “postcubismo narrativo” nei secondi anni Quaranta, “realismo esistenziale e della memoria” negli anni Cinquanta e Sessanta, “realismo allegorico” negli anni Settanta e Ottanta). Poiché in questa sede non si può ripercorrere il percorso guttusiano in maniera dettagliata, ci limitiamo a qualche precisazione. Guttuso conoscerà Picasso nel 1946 (a Parigi) e da allora ne nascerà un’amicizia che durerà tutta la vita. Il suo “postcubismo” guarda alle “novità della pittura picassiana da Guernica (1937) in poi e dispiega a una dimensione quasi epica un racconto di immagini tipiche del lavoro contadino e operaio”(Fuga dall’Etna, 1939; Ragazze di Palermo, 1940; Crocifissione, 1940/41) [E.Crispolti, Ibidem]. Non perciò il cubismo “sintetico” degli anni Dieci e Venti, o quello braqueiano, più formalistico. Il suo realismo diventa poi “esistenziale” e “memoriale”, sia per la forte caratterizzazione di polemica sociale (ciclo di Scilla, 1949/50; Portella della Ginestra, 1953), sia per l’attenzione a una realtà sociale emergente in tempi di massa (Boogie-woogie, 1953; La spiaggia, 1955/56) e infine perché, col ciclo dell’Autobiografia (1966) entra in gioco una componente nuova, la memoria. L’attenzione memoriale e introspettiva, infine, declinerà in composizioni che riassumono allegoricamente la condizione individuale e collettiva dell’uomo contemporaneo, in cui via via diventerà sempre più acuto un senso di malinconia e meditatio mortis collegato a uno sfrenato e tragico erotismo (I funerali di Togliatti, 1972; Caffè Greco, 1976; Melancholia nova, 1980; La visita della sera, 1982; Spes contra spem, 1982).

Per quanto poi riguarda più da vicino quello che con Franco Russoli si può chiamare il suo “convulso espressionismo mediterraneo”, sono tre gli elementi che fanno perno nella sua pittura: a) un contatto sempre pieno e dispiegato col mondo della natura sensibile; b) una presa quasi tattile del suo oggettualismo, che con Max Beckmann si può chiamare “autentico amore per gli oggetti della apparenza intorno a noi e per i segreti profondi della nostra vita interiore” [in una delle Drei Briefe an eine Malerin, Tre lettere a una pittrice, 1948); c) un uso sempre acceso, passionale e vitalistico del colore, che si può basare sia su accordi che su dissonanze, fino a diventare all’ultimo simbolicamente timbrico.

Queste note sull’arte di Guttuso sarebbero incomplete, se non accennassimo a un’interpretazione psicoanalitica su di essa, espressa da Dominique Fernandez. Il quale vede nel bagherese il “primo, vero pittore siciliano: ossia non soltanto nato in Sicilia, ma impregnato di quella sicilianità che caratterizza tutti i grandi scrittori dell’isola”. Guttuso, secondo Fernandez, non dimenticherà mai “lo spettacolo barocco della lussuosa policromia” dei mercati zeppi di merci (es. La Vucciria), né l’origine infantile e popolare della sua arte. E siccome, quando inizierà a dipingere, la pittura italiana  era ancora chiusa e scura, non avendo avuto né i suoi Fauves né il suo Picasso, è lui che finalmente “l’aveva aperta, scossa, maltrattata e a volte malmenata, certo, ma riportata alla vita”. Però egli “riuscì molto meglio con il registro negativo della violenza subìta che con quello positivo della forza operaia”. Come Vittorini, quello “ferito di Conversazione in Sicilia, raccoglie il lamento di un mondo offeso, più che esortare i proletari alla rivolta. Il Guttuso migliore è rimasto un siciliano autentico, ovvero un cantore della tragedia e della morte, della disfatta e del massacro, a dispetto dei suoi principi rivoluzionari”. Insomma Guttuso non avrebbe dipinto altro che Il Trionfo della morte di Palazzo Abatellis [Renato Guttuso, siciliano, Ibidem]. E forse, guardando a quanto Guttuso ha fatto dal periodo introspettivo e memoriale in poi, in particolare guardando al suo erotismo e alla sua sensualità, si spiegano meglio malinconia e meditatio mortis di gusto barocco (persino ne La visita della sera la tigre è un simbolo di morte), perché sono l’altra faccia della sua soggezione alle forze istintuali della Grande Madre mediterranea.  

GIUSEPPE MIGNECO  (Messina 1908 – Milano 1997) emigra a Milano nel 1931 e inizialmente si mantiene con lavoretti pubblicitari e come grafico alla Rizzoli. Solo quando nel 1934 si mette in contatto con Birolli e Raffaele De Grada, entrerà nel vivo della pittura contemporanea. Nel 1937 è tra i fondatori del movimento di “Corrente”. Nel 1939 partecipa alla prima mostra del movimento alla sede della Permanente. Pur praticando il realismo sociale come Guttuso, a differenza di lui - che era organico al partito fino al punto di rompere l’amicizia con Sciascia per restare fedele alla “verità ufficiale” - Migneco fu sempre autonomo e intellettualmente indipendente.
Nel 1942 parteciperà al Premio Bergamo con Cacciatori di lucertole. Richiamato alle armi, potrà riprendere la pittura solo nel 1945. Da quel momento si susseguiranno le sue mostre, o le sue partecipazioni a esposizioni collettive, in Italia e all’estero.
L’espressionismo mignechiano sarà sempre legato alla tematica sociale della sua cerchia “realistica” (pescatori, contadini, ecc.). Agli influssi vangoghiani iniziali, subentrerà via via un suo modo tipico di spaziare le figure, che lo ricollega da un lato al muralismo messicano, e dall’altro a una caratteristica tecnica del Fauvisme: quella di marcare gli spazi interni con il cloisonnisme. Inoltre i fondi dei suoi quadri vengono espressivamente “movimentati” in vario modo: erbe, fiori, reti, pietruzze delle spiagge o, quando mancano i richiami tematici espressi, con strisce ortogonali. E’ per questo che Antonio Di Genova ha definito Migneco “un intagliatore di legno che scolpisce col pennello”, mentre “nei suoi paesaggi e nelle sue figure c’è un’immobile atemporalità, che richiama l’eco della tradizione decorativa e narrativa dei carrettini siciliani, che ne riconduce l’opera ad arcaiche radici mediterranee”.

SARO MIRABELLA (Catania 1914 – Roma 1972) fa i suoi primi studi presso un pittore locale (Saro Spina). Si trasferisce a Roma nel 1936 e verrà accolto dal pittore Quattrociocchi, del quale sposa la figlia. Frequenta l’Accademia di San Luca e la scuola di nudo. Durante la guerra farà il partigiano. Dopo la liberazione è assunto da Guttuso al Liceo artistico, come assistente. Diventerà titolare per concorso della cattedra di Figura disegnata, quella di Guttuso, e sarà nominato direttore dello stesso liceo. Fin dagli inizi è oppositore del “Novecento” e col “Fronte nuovo delle arti” diventerà uno dei maggiori esponenti del realismo. Nel ’49 si reca con Guttuso a dipingere a Scilla. Parteciperà a quattro Biennali e a quattro Quadriennali romane. Le sue opere, oltre che nei musei italiani, sono anche al Puskin di Mosca.

Quello che caratterizza Mirabella è il suo oscillare fra opposte tendenze: quella astratta iniziale del movimento “Forma Uno” e quella realistica, incarnando in sé l’anima del Ponte e quella del Cavaliere Azzurro. Il suo è un astrattismo d’impianto geometrico, nel quale risolve anche certi paesaggi in cui le forme naturali sono riconoscibili (come farà il primissimo Mondrian). Invece, dopo il periodo realista, il ritorno all’astratto dal 1969 in avanti avrà una strutturazione meno rigida che l’avvicina all’Informalismo. La fase realistica è quella in cui il suo espressionismo ha dato le prove migliori. Il suo colore, sempre molto acceso, si basa su forti contrasti . La sua tematica non concernerà soltanto i consueti contadini e pescatori, ma ogni tanto avrà soggetti insoliti, come i “buoi squartati” che richiamano Soutine (1953 e 1960). Mirabella è stato anche un ottimo acquafortista.
 

4. Artisti nati entro il 1910

ELIO ROMANO (Trapani 1909 – Catania 1996) è vissuto a Catania, dove frequenterà la bottega di Saro Spina, come Mirabella e altri. La sua vera formazione la farà a Roma , alla scuola del nudo e come allievo di Felice Carena. Nel 1929 frequenterà l’Accademia di Belle Arti di Firenze e le “Giubbe Rosse” (Montale, Vittorini, ecc). In séguito andrà a Parigi, spinto dall’amore per Bonnard e Cézanne. Ma allo scoppio della guerra ritornerà definitivamente a Catania, dove farà il docente all’Accademia di Belle Arti.

Oltre alle mostre prevalentemente in Italia, parteciperà alla Quadriennale di Roma (’51, ’59, ’63 e ’71) e alla Biennale di Venezia (’36 e ’50). La pittura di Romano si caratterizza per la tematica della terra e del mondo contadino dell’interno (in particolare fra Assoro e Nissoria, nei monti Erei). Predilige il paesaggio e le nature morte, anziché la figura. Rispetto all’iniziale postimpressionismo che guardava a Cèzanne, la sua pittura si fa più espressionistica in séguito, con un dettato fortemente segnico. Romano resterà un solitario isolato, in ciò indotto dal suo temperamento. Come ebbe a dire di sé, “dipingo sempre le stesse cose e in fondo sempre lo stesso quadro, anche se il soggetto è diverso”. Frase che non è limitativa, ma esprime la fedeltà a se stesso e al proprio mondo.

LIA NOTO in PASQUALINO (Palermo 1909 – Ivi 1998) è “il miglior pittore siciliano, dopo Guttuso, della sua generazione”, come disse Raffaele De Grada nel 1992. La sua casa palermitana sarà sempre aperta ai visitatori e a quanti si interesseranno di pittura d’avanguardia. Fa le prime esperienze col futurista Pippo Rizzo. Dal 1937 al 1940 dirige una propria e famosa galleria. Fece parte del “Gruppo dei Quattro”, tra il 1932 e il 1937, con Guttuso, Nino Franchina, e Giovanni Barbera. Ha partecipato alla Biennale di Venezia (’42 e ’44) e alla Quadriennale di Roma (’31, ’35, ’39 e ’48). La critica sottolinea nella pittura della Noto una vena intimistica, che si contrappone all’acceso colorismo guttusiano.

Secondo Vittorio Fagone, la pittrice “ha dipinto ossessivamente delle figure, ha trovato il paesaggio tardi, e poi ha dipinto sempre uno stesso paesaggio (gli agrumeti e la propria casetta di campagna di Aquino, sotto Monreale)”. In ogni caso la sua ricerca di essenzialità e di semplificazione della forma è ammirevole per i risultati che riesce a conseguire, anche se la collocazione delle sue figure nello spazio risente di una certa “primordialità”. Sulla pittrice esistono due importanti monografie, edite dal Milione (MI, 1974) e da Sellerio (PA, 1989).

GIANNI BECCHINA o GIANBECCHINA (Sambuca di Sicilia [AG]  1909 – Palermo 2001) fa i primi passi grazie a un decoratore del suo paese natale, che lo assume come garzone. Frequenta più tardi l’Accademia di Belle Arti di Palermo e si accompagna agli artisti d’avanguardia del “Gruppo dei Quattro”. A Milano conosce Beniamino Joppolo e, suo tramite, entra in contatto col gruppo di “Corrente”. Collabora come illustratore di strisce al “Corriere dei Piccoli”. Parteciperà alla Biennale di Venezia nel 1938 e nel 1954, quando con la Zolfara vincerà il premio “Bevilacqua-La Masa”. Farà mostre anche all’estero. Anche se in occasione della grande retrospettiva agrigentina del 2007 il figlio dell’artista, che dirige l’omonima fondazione che cura il suo lascito pittorico, suddividerà la produzione di Gianbecchina in otto sezioni, si può dire che la sua pittura è contrassegnata sempre dalla tematica di una certa sicilianità tradizionale (così come determinate sezioni sono solo “per tema”: “Gli affreschi del sacro”, “Il ciclo del pane”, ecc.). Si può aggiungere anzi che, malgrado le frequentazioni giovanili con i pittori più all’avanguardia, Gianbecchina resterà legato a una pittura che rifiuta ogni sperimentalismo e, per certi aspetti, rientra culturalmente in una “visione” della Sicilia piuttosto arcaica e folcloristica, che trova riscontro presso un pubblico pittoricamente meno educato. Da questo punto di vista è, forse, la “presenza” meno espressionistica.
 

5. Artisti nati fra il 1911 e il 1920

GIUSEPPE MAZZULLO (Graniti [ME] 1913 – Roma 1988) è il primo degli scultori in cui ci s’imbatte. Dal paese natio (nomen omen, si potrebbe dire guardando al suo futuro) si trasferisce a Roma nel 1939. E lì diventerà docente di scultura all’Accademia di Belle Arti. Ricordiamo le sue esposizioni alle Quadriennali romane ( ’35, ’39, ’43, ’47, ’51, ’55, ’59, ’63 e ’72) e alla Biennale di Venezia (’50, ’52, e ’54). Ha anche esposto molto all’estero, in Europa, in America e in Giappone.  Dice Guido Giuffré: “E’ noto come […] Mazzullo abbia non tanto scoperto la pietra quanto si sia in essa riconosciuto e da quel momento l’abbia privilegiata fino ad adottarla in linea quasi esclusiva” [Mazzullo, Mondadori, MI, 1985, catalogo per la mostra a Palazzo Zanca di Messina]. Pur passando attraverso influssi espressionisti e cubisti, Mazzullo – prosegue il critico – “tendeva inconsapevolmente […] a una dimensione primigenia e ancestrale”. Carattere che riscontra anche Lucio Barbera, che parla di “respiro solido della materia, da cui […] nasce l’impronta antica e moderna che caratterizza le opere dello scultore siciliano, il senso ‘arcaico’ che avvolge la sua scultura” [Mazzullo, Ibidem]. Peraltro, a partire dagli anni Sessanta, nella sua opera viene riscontrato un carico di sofferenza, che si riferisce a una sfera panica e archetipica.

In ogni caso Mazzullo non lavorò soltanto la “sua” pietra lavica e il “suo” granito: al Museo internazionale della Ceramica di Faenza si conserva un suo pannello in ceramica (cm. 142 x 104) sul tema della maternità, che vinse il premio Faenza del 1942. Infine, dal 1981 esiste a Taormina, nell’antico Palazzo De Spuches-S. Stefano del sec. XIV, un museo permanente della sua opera, che conserva anche i disegni superstiti della sua giovinezza, degli oltre 500 che esistevano nella casa paterna di Graniti.

EMILIO GRECO (Catania 1913 – Roma 1995) è l’altro scultore che vanta la Sicilia, la cui grandezza si può desumere dall’affermazione che fece una volta Picasso, come “il più grande disegnatore che abbiamo in Europa”. La sua prima formazione avvenne quando, tredicenne, entrò a lavorare nella bottega di uno scultore di monumenti funerari, dove imparò sia a sbozzare il marmo che a modellare la creta. Dopo una lunga parentesi dovuta alla guerra, si fece conoscere con le teste virili e con quel Lottatore (‘47/’48) che richiamano gli esempi romani del I° sec. a.C., come quelli di un Norbano Sorice e di un Lucio Cecilio Giocondo. D’altra parte sia alla statuaria romana che etrusca, più ancora di quella greco-classica, la sua scultura guarderà sempre, anche se filtrerà il suo modellato attraverso gli apporti derivanti dagli esempi novecenteschi (si vedano esemplarmente le torsioni e il restringersi e l’allargarsi delle forme in Grande Bagnante n° I e in altre Bagnanti). Realizzando comunque la nietzscheana alternanza fra i principî apollineo e dionisiaco.

Greco lavorò prevalentemente la figura umana (il Monumento a Pinocchio del 1956 resta un’eccezione) e, nell’àmbito della figura, ebbe una preferenza per quelle muliebri, tanto che Leonardo Sciascia ne sottolineava la vena tipicamente e brancatianamente catanese, quella del vagheggiamento della donna. Non si contano le committenze famose, come la porta centrale del Duomo di Orvieto (1961-64), gli altorilievi per la chiesa dell’Autostrada del Sole (1961), il monumento in bronzo a Giovanni XXIII per San Pietro (1965). Né vanno dimenticati i lavori eseguiti per la committenza estera, Giappone compreso.

Per Greco, e per la fama universale che raggiunse, è anche fuor di luogo elencare le varie esposizioni che fece durante la vita. Ci piace invece ricordare i vari musei a lui dedicati, come quello di Catania (il più recente), quello di Sabaudia dove il maestro riposa e quello di Orvieto, senza dimenticare il museo all’aria aperta di Hakone e le sale permanenti all’Ermitage di San Pietroburgo e al Puškin di Mosca.

SEBASTIANO MILLUZZO (Catania 1915 - 30 maggio 2011) effettua le prime esperienze nello studio del decoratore Cacciaguerra, ma è a Roma dal 1936 che fa la scuola libera di nudo e si diploma al Liceo Artistico nel 1939. Dall’anno successivo intraprenderà l’attività didattica negli istituti medi e superiori. Negli anni Sessanta fonda nella sua città la rivista “Sicilia Arte”. Partecipa alle Quadriennali romane (’48,’51, ’56, ’60 e ’64) e alla Biennale di Venezia (’48, ’50 e ’56).
La maggior parte dei critici che si sono occupati di lui ha sottolineato il suo continuo sperimentare attraverso i media (oltre che pittore e incisore, è decoratore e scenografo) e attraverso gli stili (persino con un’astrazione ispirata dalla musica, come in Concerto per piano e orchestra n° 19 di Mozart,   1995, e Beethoven Sinfonia Eroica, 1996). In Le maniere di Sebastiano Milluzzo [Maimone Ed., CT, 1996] Giuseppe Frazzetto parla di arte “mercuriale”, assimilando l’artista a Picasso. “Mercuriale sta per pluralità di maniere (alla Giorgio Agamben, cioè ciascuna come ‘esemplare’). Il polimorfismo stilistico di Milluzzo […] può quindi ricondursi all’istanza sostanzialmente personalistica che l’arte contemporanea ci ha abituato a cogliere innanzitutto negli stili di solito genericamente (e imprecisamente) definiti espressionisti. […] E vano sarebbe chiedersi in quale delle sue ‘maniere’ Milluzzo sia veramente se stesso. Lo è in tutte”. Aggiunge Silvano Nigro: “Milluzzo sfugge, proteiforme. E’ ‘una sola moltitudine’, alla Pessoa. Libero nella sua realtà d’invenzione, può assumere mille volti. Può essere uno e multiplo insieme”. D’altra parte, intervistato da Carmela Gandolfo, dichiara egli stesso che “cambiare continuamente prospettiva e punto di vista fa parte del mio modo d’essere. […] A me sembra che le tecniche siano differenti, ma che la mia sensibilità artistica sia sempre la stessa”.  

Sulla sua pittura , Renato Civello [in Milluzzo, Lamda Editrice, CT, 1969] afferma che egli “ha considerato con ammirazione il meglio di Matisse e dei Fauves” e che nei suoi olî “ricorrono agli inizi accenti mafaiani e scipioniani”. Giuseppe Frazzetto segnala la sua “predilezione per un geometrismo sui generis. […] Un’esigenza di ordine, quindi, giacché la modulazione stilistica non esclude affatto la lucidità d’analisi  e la verifica di una logica formale, e anzi le richiede, se non vuole restare sospesa sul nulla del capriccio. […] La ricerca di razionalità caratterizza anche il bianco e il nero dei disegni, che spesso evitano qualsiasi accenno di chiaroscuro e sembrano puntare piuttosto alla mentalizzazione d’un esile tratto esclusivamente lineare. […] Ma è nell’uso del colore che s’evidenzia una fedeltà a quella rimeditazione di suggestioni del Fauvismo e della Scuola Romana che caratterizza la sua produzione dalla fine degli anni ’30 e dei primi ‘40”.

Per la scultura, Civello dice che “sfugge alle tentazioni del filamentismo giacomettiano, anche se, più che soffermarsi sul volume in sé, l’interesse converge sul rapporto spazio-linea”. Mentre Frazzetto afferma che “le sue sculture sono quasi sempre ‘frontali’, che secano lo spazio come se lo spazio fosse costituito dall’interminabile sovrapporsi di superfici (“un figurativo stilizzato fin quasi a giungere all’aniconico, e con riferimenti totemici”, scrisse già una volta)” Peraltro Milluzzo ha avuto modo di indagare questa sicilianità dalle aperture mitiche sia in campo religioso (celebre la Pala d’Altare per la catanese Chiesa di Sant’Agata) che profano (Paladini, Sull’Etna, ecc.).

SALVATORE FIUME (Comiso [RG] 1915 – Milano 1997) vinse a sedici anni una borsa di studio che gli permise di frequentare l’Istituto d’Arte di Urbino, dove conseguì una profonda conoscenza delle varie tecniche grafiche. Nel 1936 approdò a Milano dove conobbe Quasimodo, Dino Buzzati e Raffaele Carrieri. Nel 1938 si trasferì a Ivrea, presso la Olivetti (art director di tecnica e organizzazione), e si affiancherà a Franco Fortini e Leonardo Sinisgalli. Per potersi dedicare interamente alla pittura, lascerà la Olivetti e si trasferirà a Canzo, vicino a Como, dove adattò ad abitazione una vecchia filanda.

Alla Biennale di Venezia del 1951, il suo trittico Isola di Statue (ora nei Musei Vaticani) ottenne molto successo e gli valse una commissione per le riviste “Time” e “Life” di New York. Fra il 1949 e il 1952 compose a Perugia un ciclo di grandi dipinti sull’antica gloria della città, richiamandosi a Paolo Uccello e Piero della Francesca. Tali dipinti sono poi stati donati dalla famiglia Buitoni, committente dell’opera, alla Regione Umbria (ora al Palazzo Donini di Perugia). Nel 1950 Giò Ponti gli commissionò un dipinto (48 metri per tre) per le pareti del transatlantico Andrea Doria, che a séguito dell’affondamento della nave giace ora in fondo al mare. Nel 1962 una sua mostra itinerante di centro quadri toccò diversi musei tedeschi (fra cui Colonia e Ratisbona).

Nel 1973, insieme col fotografo Walter Mori, si recò in Etiopia (Valle di Babile, presso Harar) dove dipinse un gruppo roccioso con vernici marine anticorrosione. L’anno successivo, nella mostra antologica presso il Palazzo Reale di Milano, espose la Gioconda Africana (ora nei Musei Vaticani) e realizzò una sezione delle rocce dipinte in Etiopia, che occupò quasi l’intera Sala delle Cariatidi. Nel 1975 rivitalizzò gratuitamente il centro storico della cittadina calabrese di Fiumefreddo con varie opere. E dopo mostre al Principato di Monaco e all’Accademia di Francia a Roma, fece nel 1983 un viaggio in Polinesia per rintracciare le orme di Gauguin (donando un proprio dipinto al Museo locale). Il suo debutto come scultore (pietra, bronzo, resina, legno e ceramica) avvenne a Milano nel 1994: sue statue finiranno al Parlamento Europeo di Strasburgo, al San Raffaele di Milano, al Museo di Portofino e a Marsala (la Fontana del vino).

Fiume fu anche scrittore. Le sue opere, oltre che nei Musei Vaticani, si trovano all’Ermitage di San Pietroburgo, al MOMA di New York, al Museo Puškin di Mosca e al Museo d’Arte Moderna di Milano. Sono due le direttrici che caratterizzano l’opera di Fiume: una vena fantastica e mitopoietica e una componente esotica e primitivistica (ved. l’Etiopia e il viaggio sulle orme di Gauguin ad Haiti). A tal riguardo, sono rimaste famose l’Isola di Statue (1949) e la Città di Statue (1950), dove le figure tondeggianti tendono a porsi come feticci misteriosi e misticheggianti. I motivi “orientali” e “africani” ritornano spesso: come ne La visita del Pascià, in Dibattito sulla donna, in Donna somala distesa, Donne al balcone, Donne di Harar, Gioconda Africana, Mulatta in giallo, Personaggio del teatro Kabuki, Ritratto di cantante somala). Ma sono anche frequenti le “rivisitazioni” di maestri del passato (De Chirico, Picasso e il motivo del toro, Modigliani, Velasquez, Goya e Raffaello).

Con PIPPO CONSOLI (Mascalucia  [CT] 1919 - Milano 2010) l’espressionsismo siciliano trova una delle sue punte più rappresentative. Perché il temperamento vulcanico e carsicamente effusivo dell’artista si sposa alla sua grande cultura (sia figurativa che non). Consoli infatti è storico dell’arte ed è stato Sovrintendente alle Belle Arti.

Dal paese natio si trasferisce a Catania nel 1930. Fa studi classici e conseguirà la laurea in Lettere moderne, a indirizzo artistico, solo nel 1946, perché richiamato alle armi e inviato a Rodi, viene catturato dai tedeschi e internato in vari lager (da ultimo a Wietzendorf). Da allora il lavoro alle Belle Arti lo porta in varie città: Chieti, Milano, Agrigento, Catania, Messina. Tramite Saro Mirabella partecipa alla Quadriennale romana del ’48. Al Premio Suzzara nel ’50 vince un premio in natura con un disegno di Contadino che si disseta. L’anno successivo partecipa ancora al Premio Suzzara con Strage di Portella della Ginestra, che verrà acquistato dalla Federazione del PCI di Pescara per essere regalato a Giuseppe Di Vittorio, e da questi sarà lasciato alla Segreteria della CGIL di Roma, dove tuttora si trova.

Farà via via mostre in varie città. In occasione dell’antologica di Catania del 1954, Leonardo Sciascia dice della sua pittura: “In forza di una sua nativa adesione a motivi culturali squisitamente siciliani, le suggestioni e le esperienze più disparate della cultura figurativa attuale, moderna, egli porta quasi sempre a un punto di perfetta fusione la lezione di Picasso […] Ma al di sopra di questo arcaico e istintivo vigore in cui si risolve una cultura composita e dispersiva, Consoli ha una qualità che è profondamente sua, il dono di un’ironia, per così dire, in punta di penna” [Gazzettino di Sicilia, RAI, PA, 3.12.1954]. E aggiunge Mimì Maria Lazzaro: “La pittura di Consoli, nata da un espressionismo letterario, si è andata incanalando verso forme fauviste e cubiste, prelevando inconsciamente da esse quel minimo di forma esteriore che gli serve per raccontare a noi le sue favole e i suoi sogni con il linguaggio scoppiettante del tempo” [La Sicilia, CT, 4.12.1954].

Consoli si trasferisce a Milano nel 1959 e da allora la sua ricerca si manifesta attraverso vari altri media espressivi. Immagina innanzitutto delle strutture in fibre metalliche (bellissima La capra) e poi modella lamiere di ferro saldate (La danzatrice). Da matasse tubolari di fertène policrome (un prodotto della Montecatini) assembla particolari “accorpamenti” che titola Ciclopi: consegue un vasto successo alla Galleria “L’Indice” di via Santo Spirito. Seguirà una fase “sociale” ripresa dalla cronaca violenta (scippi, aggressioni, ecc.). Quando nel 1972 torna in Lombardia, espone alla Galleria Pater di via Borgonuovo (si ricorda: Gatto acciambellato, Ragazzo che gioca con le nocciole), per la quale Carlo Munari dice in catalogo: “Questo artista è vincolato alla Stimmung della sua terra siciliana: a un fitto intrecciarsi di solarità e di notturnità, di magnificenza barocca, e di natura selvaggia, fascino di negre rocce vulcaniche e di un mare ossessivamente azzurro […]. La figura del gatto si propone come l’improvvisa apparizione di un animale mitico, di un latore di messaggio arcano e insieme enigmatico”.    

L’ultima sorpresa Consoli la riserva nel 2000, con una mostra di pure forme cromatiche, di immagini fantastiche, che stando sulla soglia del conscio e dell’onirico, scandagliano la freudiana categoria del perturbante. Ma non si può chiudere il percorso artistico di Consoli senza accennare all’attribuzione che egli, come studioso, farà del palermitano affresco del Trionfo della Morte  ex Sclafani in capo al maestro digionese Guillaume Spicre, che venne dipinto nel 1462.

NINO LEOTTI (Barcellona P.G. [ME] 1919 – Ivi 1993) è un autodidatta che comincia a dipingere da ragazzo, ma poi diventa ordinario di disegno e storia dell’arte nei Licei Statali. Lascia la cittadina natale nel primo dopoguerra, per trasferirsi dapprima a Milano e poi a Roma. Rientra definitivamente a Barcellona nel 1959. Durante il soggiorno a Milano raggiunge la Francia, l’Olanda, il Belgio e la Danimarca. A Milano aderisce al gruppo di “Corrente” e diventa amico di Peppino Migneco e Beniamino Joppolo. A Roma frequenta Mazzullo, Guttuso, Purificato, Zavattini e Stefano D’Arrigo.
A Messina fa parte degli artisti e letterati del “Fondaco”, presso l’OSPE di Antonio Saitta, e perciò frequenta  S.Pugliatti, S.Quasimodo, Nino Pino Balotta, Vann’Antò ed altri. E’a lui che viene l’idea di allargare questo sodalizio anche alla gastronomia e diventa così il cuoco “ufficiale” del “Fondaco” (la sua specialità era la ghiotta di stoccafisso).

Espone la prima volta nel 1947 a Barcellona (ebbe come maestro un incisore palermitano vissuto negli USA, Vittorio Drago). Numerosissime la mostre personali e collettive. All’estero ha tenuto personali ad Amburgo, Zurigo, Copenaghen, Amsterdam. Ha partecipato alla Quadriennale di Roma del 1951/52.

Afferma Michele Spadaro [Catalogo, Mostra a Patti, dic. 2002] che è da sottolineare nella sua pittura “l’uso del colore, personale, creativo, carnalmente acceso; l’ironia del racconto, motivata da una sottile critica all’ambiente provinciale; l’aspetto umano, estrinsecato emotivamente anche attraverso la ricerca di tratti caricaturali; il realismo figurativo, frutto di interpretazione interiorizzata del mondo”. Del pari Elio Anastasio [Catalogo, Mostra a Castroreale, luglio 2001] dice che il “suo figurativismo è un figurativo soggettivo, nel senso che i suoi soggetti non sono mai presi dal vero. Leotti non dipinge ciò che vede, bensì ciò che sente”.

E’ stato spesso sottolineato che l’espressionismo di Leotti è affine a quello di Migneco, con il quale si accompagnò sempre. Tale affinità è evidente negli sfondi delle tele, che sono “variegati” come quelli mignechiani (muri a secco, ciottoli, foglie, cactus, ecc.). Ma mentre in Migneco c’è una maggiore varietà tematica (famoso, ed emblematico, il “ragazzo accoccolato” che fa i propri bisogni), in Leotti l’umanità rappresentata è più “localistica” (è tipico il suo ombrello rotto, trovato abbandonato in una spiaggia e “ridiventato vivo, perché gli aveva dato un’anima”). In ogni caso, come afferma egli stesso nell’intervista rilasciata a Sergio Palumbo [RAI/2, aprile 1990], lo “scambio fu reciproco: io subivo il suo influsso dal punto di vista grafico, lui invece lo subiva dal punto di vista cromatico”.  

RENZO COLLURA (Grotte [AG] 1920 – Palermo 1989) fu il prestigioso direttore della Galleria d’Arte Moderna di Palermo dal 1959 al 1977 (ubicata dal 1910 al 2006 presso il Teatro Politeama). Compie i primi studi artistici a Torino, ma in séguito alle vicende belliche opererà in un primo tempo in Grecia e poi in Albania, dove per la conoscenza dell’arte classica e bizantina sarà incaricato dal Ministero per la Cultura popolare a organizzare e dirigere corsi di avviamento artistico.

Per rigore etico farà conoscere le opere della sua attività di pittore solo dopo il suo collocamento a riposo. Da allora terrà mostre a Palermo, a Padova, Roma e in altre città. Nel 1999 il Comune  di Grotte gli ha dedicato una grande retrospettiva. Quello che caratterizza l’arte di Collura è la componente fantastica, che gli fa assemblare elementi monumentali e paesaggistici in composizioni con grandi linee curve e spazi delimitati ma allusivi. Inoltre la sua tavolozza usa accostamenti insoliti, come il nero che a volte marca in maniera aggressiva le composizioni.
 

6. Artisti nati fra il 1921 e il 1930

MARIO BARDI (Palermo 1922 – Milano 1998) ha dapprima insegnato materie artistiche ad Aosta nel 1951, poi ha vissuto a Torino e infine, dal 1958, a Milano. Qui, frequentando le personalità più rappresentative in campo artistico e critico, ha poi vissuto e si è affermato (rimase famoso il suo spazio “Aleph”, sorto nel 1982, in un cortile di Corso Garibaldi). Ha esposto in varie gallerie italiane e qualcuna anche all’estero (Helsinki, Polonia, Berlino). Il suo periodo realistico fino agli anni Cinquanta risente della lezione cèzanniana, mentre quello “esistenziale” degli anni Sessanta è sottoposto alle sollecitazioni della cronaca (Il mulo tra le macerie allude al terremoto del Belice e Suez ’67 alla crisi mondiale di quel momento ed è forse per questo che il dipinto è risolto in tonalità di rosso).

Ma è con la “nuova figurazione” dagli anni Settanta in avanti che Bardi trova la sua “sigla” più propria, che può andare da citazioni di maestri del passato (es.: Omaggio a Velasquez del 1974/77) a una rivisitazione dei motivi dell’opulenza barocca e magniloquente della “sua” Palermo, come Cardinali (1976) e Viceré (1978), tutti dipinti caratterizzati dalla scomparsa del volto delle figure. Bardi poi, nel 1980, si rifà all’allegorismo di Guttuso e, in una grande composizione chiamata Giardino, mette insieme vari personaggi della sua epoca (c’è Marilin Monroe), se stesso (l’autoritratto in primo piano) e, seduti sulla destra a un tavolino, Guttuso e Sciascia.

SANTO MARINO (Militello Val di Catania [CT] 1922 – Ivi 1991) frequentò il liceo artistico di Palermo, dove si diplomò nel 1947. Qui ebbe modo di conoscere i pittori che gravitavano intorno alla cerchia di “Corrente” e da allora l’aspetto sociale e l’impegno politico non abbandoneranno mai la sua pittura, che d’altra parte trova nel mondo contadino del suo paese la fonte principale d’ispirazione. Nel 1959 partecipa a Vienna alla mostra internazionale della “Giovane pittura italiana” e nel 1964, su invito del governo della Germania Orientale di allora, terrà una personale di disegni a Berlino e di altre opere a Dresda. Anche l’anno successivo partecipa a una mostra internazionale di grafica a Lipsia. La Germania, insieme con la Polonia, conserva molte sue opere.

Marino in vita ebbe contatti con l’intellighenzia di sinistra e non tradì il suo mai sottaciuto scopo di “trasformare”, e perciò di lottare contro le condizioni sociali oppressive delle classi più umili e diseredate. Fece scalpore la sua tragica fine: travolto da un treno per disattenzione, mentre camminava sulla linea ferrata.

Fin dall’inizio la sua pittura fu definita come “espressionismo mediterraneo”, per l’alterazione delle forme e i violenti accostamenti di colore. Forse oggi, a distanza di tempo, certa sua tematica appare troppo gravata con le lotte per il “riscatto” dei suoi contadini. E’ però fuor di dubbio che il rispecchiamento che egli ha fatto di una determinata realtà di Militello sia icasticamente rappresentativo di un clima e di un’epoca. Il suo paese natale, giustamente, gli ha dedicato una sala permanente nel Museo Civico.

PIPPO BONANNO (Palermo 1925) è un autodidatta che ha iniziato a disegnare molto presto e, inizialmente, farà vignette per i giornali satirici (“Il becco giallo”, ecc.). Nel 1947 inizia la carriera di insegnante a Moncalvo Monferrato. A Torino guarderà a Casorati e a Spazzapan, ma poi resta folgorato da Picasso. La prima personale avverrà a Palermo nel 1958 alla Galleria Flaccovio. Espone poi a Milano nel 1960 e, successivamente, farà il suo percorso in Italia e all’estero. Intensità del colore, deformazione espressionistica e partecipazione emotiva sono gli elementi intorno a cui si struttura la pittura di Bonanno che, anche se inizialmente trova pause più liriche, si caratterizza sempre più attraverso il grottesco.

La sua tematica passerà così da vari cicli: “i generali”, “i cardinali”, “le memorie barocche”. L’obiettivo resta sempre lo stesso: demistificare il potere incarnato e la superstizione che avvolge le menti. Se si prendono i “generali”, sembra quasi di assistere a una combinazione di vari maestri: il grottesco di George Grosz, l’allucinazione dei derelitti di Lorenzo Viani e l’esteriorità in divisa e con le medaglie di Enrico Baj. Come dirà egli stesso in una dichiarazione del 2005, la sua pittura ha per tema “gli emblemi assurdi del degrado politico e morale”. Ciò peraltro non significa che Bonanno non faccia poi “sosta” su momenti più pacati e di più rasserenante “memoria”, come quando ripercorre il “mito” di Racalmuto, dove aveva origine la sua famiglia. Negli ultimi tempi la pittura di Bonanno, a parte la rivisitazione della tradizione religiosa, sfocia in una sorta di in formalismo, che sembra richiamare motivi vegetali e naturali.

BRUNO CARUSO (Palermo 1927) incominciò a disegnare sotto la guida del padre ingegnere, dall’età di cinque anni (copiando opere di Leonardo, Pisanello e Mantegna). Frequentò il liceo classico e si laureò anche in giurisprudenza, anche se poi fece dei corsi liberi all’Accademia di Belle Arti. Vive e lavora a Roma dal 1959.

Caruso ha molto viaggiato: nel 1947 a Praga, a Monaco e a Vienna (eseguirà un ciclo di disegni ispirati a Gorge Grosz, dal titolo Deutschland uber alles, riproduzioni delle opere di Klimt e Schiele, e studierà in particolare Espressionismo e Secessione Viennese).Tra il 1945 e il 1950 è a Parigi e a Londra e si fermerà per molto tempo a Milano, diventando amico di Vittorini e Quasimodo. Ma è in Sicilia che, diventato amico di Girolamo Li Causi e di Leonardo Sciascia, si eserciterà sempre più nella denuncia delle condizioni sociali del mondo contadino e nella lotta contro la mafia (ved. L’occupazione delle terre incolte e Portella della Ginestra). Negli anni ’60 collabora anche con “L’Ora” di Palermo e s’impegna nella grafica per l’editoria (non va dimenticato che Caruso è anche scrittore, sia di libri sull’arte che non). E’ anche per questo che, nella grande mostra palermitana del 1973 presso la Civica Galleria d’Arte Moderna, sono stati presentati i vari scritti e i libri da lui illustrati.

La produzione di Caruso è sterminata, ma c’è una caratteristica che contrassegna la sua opera: un segno marcatissimo, spesso di genere grottesco alla Grosz, che tecnicamente può variare dalla vera e propria grafite, all’inchiostro di china o alle classiche acqueforti. E anche quando affronta l’acquarello e i colori a olio, il disegno in lui tende sempre a prevalere. Naturalmente, la tematica della sue opere è prevalentemente ispirata alla Sicilia, anche se spesso non sono i soggetti “reali” a essere trattati, ma quelli reinventati attraverso il filtro memoriale.

D’altra parte, ebbe a dire lui stesso: “La memoria di un pittore è essenzialmente figurativa e la mia è particolarmente esercitata a ricordare le immagini (tanto che tutto quello che disegno o dipingo lo faccio a memoria) e queste immagini si accavallano come in un film […]. Ma sono pur sempre memorie di fatti e di sequenze di fatti; eventi che poi un pittore è costretto a sintetizzare in una sola immagine e mistificare o nascondere in una metafora spesso sibillina o ambigua” [Motta-Caruso, Un’amicizia, Manduria, 1994]. E metafore, sibilline o ambigue, sono spesso le sue immagini, come quella del grande falcone che guarda, in un panorama dello Stretto di Messina ripreso dalle crocifissioni di Antonello, Leonardo Sciascia che avanza nudo su un cavallo; oppure il grande ficus dell’Orto Botanico di Palermo, dalle radici pendule, intriganti e aggressive, che simboleggiano la “piovra” dell’Inquisizione siciliana.

GIUSEPPE GAMBINO (Vizzini [CT] 1928 - Preganziol [TV] 1997) fu un girovago perché il padre, funzionario alle Belle Arti, veniva trasferito in varie parti d’Italia. Cominciò a darsi all’arte fin dal 1944, sull’Appennino modenese, che com’è noto fu sede di aspri scontri fra tedeschi e partigiani. Fu giocoforza, allora, comporre e seppellire i corpi dei caduti. Nel 1953 arriva a Bologna e si occupa di grafica pubblicitaria insieme con Nino Caffè. Dal 1954, spostandosi a Venezia, si dedicherà definitivamente alla pittura.

Tenne la sua prima grande esposizione alla Fondazione Bevilacqua La Masa e da allora venne consacrato come “pittore veneto”. Seguirono esposizioni in Italia, negli Usa e in Europa, fra cui Cordoba, dove trascorreva ogni anno l’inverno. Dal 1963 acquistò e ristrutturò un’abitazione colonica a Preganziol, dove poi si spense, e perciò la mostra che si tenne a Treviso, sul tema “Venezia”, è sotto un certo aspetto “dovuta” come riconoscimento della sua terra d’elezione.

La sigla più caratteristica dell’espressionismo di Gambino è da vedere nelle facciate , nei palazzi e nelle chiese veneziane, dipinte con forti contrasti di colori e con una composizione figurativa piatta e schiacciata contro il fondo, che però ricerca accordi e suggestioni di tipo musicale. Esemplari, in quest’àmbito, Le Procuratie vecchie del 1960 e La chiesa della Salute del 1996.

MICHELE SPADARO (Santa Teresa Riva [ME] 1929 ) è un autodidatta (solo da ragazzo prese lezioni di disegno “rappresentativo” da una pittrice). Di lui ha detto Leonardo Sciascia: “Medico per necessità di vita, pittore per elezione di natura”.

Sul suo luminismo ha insistito Mario Monteverdi: “Spadaro ha inteso il colore in funzione della luce, ossia ha superato le suggestioni immediate fornite dal colore per servirsi di quest’ultimo come di un mezzo per realizzare la luce. […] Sicilia non più e non tanto come folclore […] ma come realtà lirica. […] La natura […] viene interpretata: più precisamente nella sua poetica essenza” [Catalogo, Galleria Angolare, MI, 1970]. E aggiunge al riguardo Sergio Palumbo: “ Spadaro non ha subito una dichiarata influenza delle avanguardie storiche protonovecentesche, né di quel realismo sociale del secondo dopoguerra così fortemente sentito, invece, da pittori siciliani che hanno fatto scuola come Guttuso e Migneco. Una ideale ascendenza si può, semmai, riscontrare nell’opera di macchiaioli e chiaristi, ma Spadaro guarda al paesaggio siciliano con sensibilità moderna. […] Pure là dove questa sua Sicilia, difatti, sembra apparentemente fuori del tempo, arcaica e rurale, inanimata per l’assenza o quasi di umanità, c’è a monte l’idea di un totale rifiuto della realtà industriale e consumistica. […] Quella che egli mostra è in sostanza l’immagine cristallizzata di un mondo più sognato che vero, ci si trova allora dinanzi a una dimensione più simbolica che realistica” [Catalogo, Mostra Comune di Milazzo, 1993].

Anche Lucio Barbera sintetizza in questi termini la sua visione pittorica: “Spadaro è di sua natura un artista lirico e, sotto il profilo formale se si vuole, un ‘chiarista siciliano’, che è cosa ben diversa dal chiarismo che ebbe fortuna in Lombardia intorno al 1929 con artisti quali Del Bon, De Rocchi e Lilloni. La liricità di Spadaro si impianta in una ossessiva e dolcissima visione di una Sicilia del tutto diversa da quella di artisti quali Guttuso o Migneco. […] Spadaro piuttosto guarda ai grandi spazi, a quelle sensazioni omeriche di classica compostezza, a un ordine possibile della natura non scempiata dall’inquinante presenza umana, a quel tempo più alto dell’orologio […] che governa le stagioni. C’è nella sua pittura questo respiro quasi epico che punta alla bellezza non contaminata,non alle cose ma alla loro resistenza” [Gazzetta del Sud, 29.1.1993].  
 

7.Artisti nati dal 1931 in avanti

ERNESTO LOMBARDO (Tripi [ME] 1934) si è diplomato all’Istituto Statale d’Arte di Palermo. Fa le prime esperienze artistiche a Messina, ma verso la fine degli anni Sessanta si trasferisce dapprima a Milano e poi ad Albissola. In séguito va a vivere a Roma. Numerose le mostre personali e collettive in Italia e all’estero. La pittura di Lombardo si inscrive in una decisa linea fantastico-visionaria, come ha sempre messo in rilievo la critica. Renzo Margonari precisa che la sua visionarietà “si costruisce senza deviare dal dato reale di base. Non siamo […] nel campo della fantasticheria, nella sua variazione di ‘capriccio’, ma piuttosto nel campo del visionario, detto in senso goyesco”. Pippo Consoli parla di “estasi metafisica, la quale costituisce in atto la sigla essenziale dell’opera di Lombardo […]. Il suo discorso si svolge nella rappresentazione inquietante quanto plausibile di sibilline metafore. […] Lombardo assume la difesa del culto romantico della natura che la moderna civiltà degrada”.

Paolo Miccoli afferma che “la costante della pittura di questo artista è data essenzialmente dalla visione simultanea di natura e storia. La natura prende corpo nel fascino del mare, dei monti, degli alberi, del cielo e dei prati, mentre la storia palesa i suoi documenti o ‘frammenti del passato’ in statue dimezzate, in reperti archeologici, in attestati plastici della mitologia pagana. La cifra dell’arcaico […] è anche lezione di richiamo alla saggezza del passato ideale, dove l’armonia della natura non era messa in crisi dall’operato dell’uomo tecnologico odierno”. Renato Civello aggiunge: “Il dato naturalistico (grande carrubo, roccia, stoppie riarse, collina o ansa di mare) è investito di un misterioso respiro. La metafisica è in agguato, ma senza la rarefatta idealità dell’invenzione dechirichiana”.

Emilio Sidoti [sulla rivista Liguria, n° 4, aprile 1992] afferma: “Gli ultimi dipinti […] sembrano variazioni di un medesimo tema scandito in tre momenti fortemente metaforici: il verde residuo, la landa desolata ed il mare lontano. […] In essi domina il vuoto, incombe l’assenza, il silenzio. […] Lombardo non dipinge paesaggi, ma dà corpo a pensieri, riflessioni, stati d’animo: le sue sono visioni e non paesaggi. […] Il suo è un romanticismo senza illusioni, aprés le dèluge”. Claudio Strinati dice che “le sue opere sono contemplazioni immobili di luoghi che non esistono, ricostruiti da una personale ‘arte della memoria’. Tutti gli elementi che compongono quei luoghi sono reperibili nella realtà della natia Sicilia ma niente viene rappresentato dal vivo. […] Tutto si cristallizza davanti ai suoi occhi nelle forme di un eterno presente”. Mario Lunetta [sulla rivista Roma, 1993] vede “nel sogno della Sicilia archetipica di Lombardo […] un teatro di finzioni di secondo grado, un metateatro. […] E quest’invenzione desublimatoria e lievemente sarcastica […] rimescola con solenne capacità di sospensione e di inquietudine contemporanea suggestioni ‘metafisiche’ e ‘surrealiste’, dentro una zona di immobile ciclone barocco”.

Maria Augusta Baitello infine scrive: “Il mito, la storia, la favola fanno parte […] della cultura di Lombardo. […] Paesaggi a volte disabitati e a volte popolati da insoliti ed arcani protagonisti: personaggi mitici, animali, sfingi, statue. […] Figure e spazi sospesi a metà, collocati sulla soglia di un oltre-realtà capace di coniugare il dato irreale con quello reale. […] In un tempo teso all’infinito e per questo ultramondano, in grado però di ospitare i miti di ieri rivisitati dalle necessità dell’oggi”.

PIPPO GAMBINO (Porto Empedocle [AG] 1935 – Palermo 2004) si trasferisce con la famiglia a Palermo già a quattro mesi  e – predestinazione ? – in una casa le cui finestre aggettano sull’Accademia di Belle Arti. In effetti Gambino frequenta il Liceo artistico e, nel 1952, si iscrive all’Accademia, dove verrà assunto come assistente nel 1955. Poi nel 1960 vince il concorso per la cattedra di “Incisione”, le cui tecniche eserciterà per tutta la vita con risultati importanti (e innovatori, come la stampa su papiro e quella su sughero). Per Gambino bisogna perciò usare sempre la doppia denominazione pittore-incisore.

Peraltro, la carriera artistica si affianca sempre a quella di insegnante: diventa direttore dell’Accademia di Palermo nel 1978, ma insegnerà anche a Bari (1977) e inviato come commissario all’Aquila (1984). Sarà incaricato dal Ministero a integrare gli organici per l’Accademia di Sassari (1988). Questa collaborazione “ministeriale” culminerà nel conferimento della medaglia d’oro per meriti culturali da parte del presidente Cossiga (1990). E quando nel 1982 si trasferisce a Roma, assumerà la cattedra all’Accademia “libera” di Ripetta (e vivrà in una soffitta-laboratorio sita in un ex convento, a Trastevere).   

 Pippo Gambino, già nel 1953, compie viaggi di studio in Europa (Parigi, Salisburgo, Saarbrucken, Monaco) e, via via, espone spesso all’estero (Stuttgard, Mosca, S.Pietroburgo, Kiev, Talvin, Londra, Berlino, Città del Messico, Ankara e Smirne, New York). In Italia, a parte le mostre in varie città (e i premi assegnatigli), espone alla Quadriennale di Roma nel 1960 e nel 1986. 

Leonardo Sciascia, che come si sa era un “amatore di stampe”, loderà nel 1966 la sua “volontà di fare l’acquaforte, di esprimersi compiutamente nei limiti e nell’identità del mezzo che si è scelto”. Ma già Renato Guttuso, nel 1964, descriveva la sua arte in questi termini: “La sua pittura è fatta di caratterizzazioni di tipo espressionista: il sentimento della sofferenza si esprime attraverso la deformazione dei volti, del paesaggio. Bisogna però osservare che la ‘deformazione’ espressionistica non è in Gambino qualcosa di volontario, di sovrapposto all’immagine normale, ma connaturata ad essa: il paesaggio, ad esempio, subisce le stesse deformazioni di un volto. Il tema di Gambino è il dolore: delle case, mura, tetti, imposte, alberi, radici, volti”.

Di neo-espressionismo parla il critico Franco Grasso (L’Ora, PA, 1.11.1972) e Aldo Gerbino, in un bell’articolo del 2004 (Prometheus, PA, n° 81) usa per le sue figure l’espressione dismorfia cinematica dei corpi.  Mai come in Pippo Gambino torna d’attualità quello che diceva G.C.Argan: “Il brutto non è altro che un bello caduto e degradato. […] Soltanto l’arte potrà compiere il miracolo di riconvertire in bello quello che la società ha pervertito in brutto” [in L’arte moderna, citato]. Spesso infatti le figure di Pippo Gambino sono la quintessenza della “bruttezza” e di una ricercata e guttusianamente “dolorante” umanità. Figure di frequente collocate contro uno sfondo di macerie  e di ruderi (si possono prendere, emblematicamente, gli stessi titoli di certe sue incisioni: Viscere (1950), Sventramenti (1954), Cortile Cascino (1953), come se Palermo non potesse che mettere in mostra i suoi “segreti” innominabili. C’è poi nei suoi paesaggi una ritornante impostazione a fasce orizzontali, bi o più spesso tripartite: dove, nel primo o più di frequente ultimo piano, campeggia un grosso mammellone roccioso che sembra richiamare vagamente i paesaggi australiani, le tipiche Hanging o Ayers Rocks.

NINO CANNISTRACI (Roccavaldina [ME] 1935) insegna progettazione e costume in una Scuola d’Arte della sua città . Oltre alle mostre in Sicilia, ha esposto a Innsbruck nel 2001 e ad Ankara nel 2005.

Il critico che quasi a ripetizione si è occupato di Cannistraci è Guido Giuffré, che già nel 1973 affermava: “La natura dell’artista siciliano, contrastante con la mitezza del suo carattere, è intrisa di un senso drammatico del mondo, radicale e senza compensi […].E’ una drammaticità giuocata su accensioni formali di tipo espressionistico, ma non vangoghiano […], quanto piuttosto espressionismo ancora giudicante, nel quale una vena di psicologismo visionario centroeuropeo scorre sotto l’irruenza mediterranea. E’ una drammaticità, inoltre, il cui senso panico non si traduce mai in esiti di action painting o variamente gestuale, ma sempre si avvale di una plasticità della forma. […] Se si analizzano le confluenze nell’arco della pittura contemporanea ecco, coerentemente, Sutherland  e Bacon come Picasso. Ma ecco soprattutto il volto autonomo […] di una pittura che non si nutre di prestiti ma di un clima problematico”. E nel 1977 precisava: “Intanto il colore non offre la vivacità che ci si aspetterebbe da un meridionale. E’ colore sottile, filtratissimo […]. Eppure è colore caldo […], dissolto negli spazi protagonisti […]. Spazi senza suoni dove una forma  può disfarsi come capriccio di nuvola”: E nel 1986 aggiungeva infine: “Sui contenuti poetici non sono intervenuti novità di rilievo; l’artista tenta, tormenta, scava negli aspetti di una dimensione culturale tanto universale […] quanto puntualmente siciliana, che in letteratura, da Pirandello a D’Arrigo, ha immediati riscontri; e nell’arte figurativa […] una visionarietà spinta alla disperata o cupa follia, abissale solitudine, suggestiva confidenza col mito”.

Anche Lucio Barbera [Il mito quotidiano, in Nino Cannistraci, opere, Gall. D’Arte L’Airone, ME, dic. 1990] ricalca tali giudizi e sottolinea che “la carica fantastica, che lo conduce sia alla deformazione della realtà, che alla affermazione di impossibili coesistenze allegoriche […], non spinge mai la sua pittura sul terreno della surrealtà”. Mentre Elvira Natoli (1986) mette l’accento sull’aspetto polisemicamente simbolico della sua pittura: “Una figurazione costruita in addensarsi drammatico della stesura cromatica indaga mitiche forme, registra affiorare di pensieri intorno ai misteriosi e ambigui meccanismi del reale (donna, specchio, babuino, sparviero), simboli arcani, minacciose presenze”.

Ma chi più di tutti ha messo in evidenza la natura simbolico-archetipica, alla Jung, della sua pittura è lo stesso pittore, che in un’autodichiarazione del 1974 afferma: “Faccio una pittura che si potrebbe anche definire tradizionale, se non fosse per l’esecuzione tecnica che è essenzialmente espressionistica […]. Nei miei quadri si possono trovare belve e crocifissi, nudi femminili e babuini, avvoltoi, presenze insomma del mondo naturale, spesso zoologico, e simboli di altra natura attinenti al mondo spirituale. L’associazione di questi elementi non è mai programmata, ma nasce sempre da una sorta di evocazione spontanea per antitesi fra Eros e Thanatos. […] Queste forme naturali diventano così, attraverso i processi autoanalitici, archetipi dell’inconscio. […] L’arte non esprime mai il proprio rapporto col mondo e con la storia in forma diretta, ma sempre attraverso metafore, che è proprio quello che io cerco di fare”.

GIGI MARTORELLI (Palermo 1936) frequenta dapprima il Nautico e poi il Liceo Artistico. Si iscrive all’Accademia B.A. ed è attratto da Pippo Rizzo. Nel 1957 va a Milano e viene accolto da Peppino Migneco. Si diploma all’Accademia nel 1959 e, tramite Giorgio Carpintieri, ottiene una committenza per la decorazione di negozi. Dal 1962, e per otto anni, insegna al Liceo Artistico di Palermo. Nel 1970 lascia l’insegnamento e si trasferisce a Roma. Ma nel 1980 decide di esiliarsi a Capo d’Orlando per avere un contatto più diretto con la natura e col mare (vive con una merla indiana, di nome “Ciccina”).

Fa la prima personale nel 1962 alla Galleria Flaccovio di Palermo. Da allora espone in varie gallerie, prevalentemente siciliane (all’estero a Maracaibo nel 1959 e a Caracas nel 1972).

Afferma Anna Maria Ruta [in Gigi Martorelli, Sellerio, PA, 1991]: “Sul finire degli anni Cinquanta la pittura di Martorelli si articola tra un ‘astrattismo inquieto’ […] che ammicca a Kandinskij e varie coloratissime Forme (sagome di paesaggi urbani ed extraurbani, ma anche gli oggetti e gli elementi di una natura morta, […] come tenaglie, pinze, barattoli, contenitori, tubi di colore, pesci, limoni, ecc.), che rivelano la tensione verso una ricerca che è prevalentemente formale e cromatica”. Verso gli anni Sessanta inaugura la stagione dell’Informale (da Vedova ad Hartung, da Fautrier a Pollock), ma ben presto “approda – continua la Ruta – a un suo particolare neo-figurativismo (che richiama anche il suo amatissimo Bosch) e più tardi il recupero della realtà si stabilizza in forme assai personali, attraverso l’incidenza della luce su forme emblematiche”. Il suo sperimentalismo adotterà anche l’uso della sabbia mescolata ai colori, in particolarissime tecniche miste.

Eva Di Stefano sostiene [in A lemon is a lemon is a lemon, Ibidem] che “i tre principali moduli compositivi che ricorrono nei trent’anni di pittura di Martorelli, lo spacco, l’orizzonte e l’ingranaggio, sono combinati insieme nel Racconto della terra e della luna spezzata (1984)”. Per lo spacco è emblematica l’opera Avventura del limone (1974), dove la ripetizione seriale del frutto è – come afferma lo stesso Martorelli – ‘una forma che vive di se stessa’ e diventa perciò “una dichiarazione di poetica per un pittore a briglia sciolta che in tutto il suo lavoro ha alternato con spregiudicata naturalezza immagini figurative e astratte”. Per l’ingranaggio, in “quell’aggrovigliarsi di oggetti, tubi, rottami, recipienti, sassi, detriti, membra disarticolate, riconosciamo una sorta di moderno inferno alla Bosch, un mondo di mutilazioni metalliche, di deriva tecnologica […], che […] è anche semplicemente […] un incubo dell’anima, un cattivo sogno”. Per l’orizzonte, infine, “credo che alla passione degli artisti siciliani per la linea dell’orizzonte (si pensi a Guccione) non sia estranea nel fondo una drammaturgia dell’insularità ovvero del limite”.

Vincenzo Consolo [in La risacca di Gigi Martorelli, Ibidem] scrive: “Cosa vuole raggiungere, cosa vuole riconquistare Martorelli a Capo d’Orlando? Non certo la natura. Non è così ingenuo il pittore, da credere che la natura possa ancora essere rappresentata, sia pure come nostalgia, come utopia. Noi crediamo che da Capo d’Orlando egli abbia voluto ripartire proprio per registrare, per dipingere l’agonia di essa, la sua fine. […] D’altre risacche vuole dirci il pittore, d’altri detriti. Forse della nostra anima, della nostra epoca, della condizione umana”.

Franco Grasso [in L’Ora, PA, 12.4.1974] afferma: “Per spiegare la ‘pittura ecologica’ di Gigi Martorelli non è difficile rinvenire […] i riferimenti al paesaggio siciliano, ma con una ribellione costante al piacevole e al caratteristico, al cliché della Sicilia felice come agli schemi veristici e sociali. La chiave di tutto il fare dell’artista è da ricercarsi in un rapporto di amore-odio – verso la Sicilia, verso la natura, verso la società, verso il mondo intero -, che si è andato con gli anni esasperando sino a spingersi talora ai limiti della furia iconoclasta, del satanismo distruttivo”.Anche se Eduardo Rebulla [in L’Ora, PA, 12.3.1975] attenua questa negatività affermando che “alla coscienza di una natura inabitabile come riflesso dilatato del proprio stato di alienazione e costrizione, fa séguito la coscienza che forse in fondo anche ‘la morte muore’ e che nella sconfitta è possibile rinvenire valori e princìpi”. Sergio Troisi [in Giornale di Sicilia, PA, 6.12.1986] sostiene: “E’ una pittura che procede per allusioni, quella di Gigi Martorelli, […] dove lo spostamento dal reale al visionario percorre così in bilico il filo dell’intensificazione allucinatoria – e mentalmente riepilogata - della visione”. Infine Giovanni Bonanno [in Cooperazione 2000, anno IV, n° 1, PA, gen. 1989] parla di “ iconismo di aniconie, di immagini viste nella mente o intraviste in lembi di paesaggi che l’immaginazione carica di valenze ‘altre’. […] La vibratilità segnica e cromatica di una pittura mentale […] è segno di un lirismo che trova memoria in Klee e Kandinskij e che si esplicita, all’interno della strutturalità cubista, con una semantica concettuale e barocca”.  

TOGO (Enzo Migneco - Milano 1937) è nato nella capitale lombarda solo “per avventura” (perché il padre vi si trasferì per un certo periodo a causa del lavoro). Ma la sua formazione e la sua esperienza di vita è tipicamente messinese (da quando decise di dedicarsi all’arte prese un soprannome per distinguersi dallo zio paterno, pittore famosissimo). Consegue il diploma dell’Istituto Superiore d’Arte di Palermo e fa la prima esposizione proprio a Messina nel 1961, insieme con un amico pittore. Si ritrasferisce definitivamente a Milano nel 1962. Abbinerà sempre alla pittura l’attività d’insegnamento (da ultimo presso l’Associazione “Roberto Boccafogli”, nell’àmbito di attività socializzanti). Non si possono elencare le esposizioni, personali e collettive, sia in Italia che all’estero (Polonia, New York, Helsinki, Bruxelles, Germania).

Se è vero che gli inizi di Togo sono da ricercare nelle esperienze del realismo (che egli, per così dire, nutriva in casa), la sua pittura si contrassegna però per un uso del colore di forte marca espressionistica. I lavori esposti nel catalogo “Diarcon” a cura di Raffaele De Grada, nel 1977, mostrano più un aspetto fauve, ma poi l’impianto “geometrico” della forma si allenta in quelli presentati nel 1981, all’Annunciata di Milano, con presentazione di Paolo Volponi (né manca qualche esempio che si richiama ai “vegetali” di Morlotti). Ma le oscillazioni dialettiche, in Togo, rientrano nel suo temperamento. In relazione a una mostra di grafica, dirà Giorgio Seveso: “L’autobiografismo e l’autoanalisi sono diventati ancora più incombenti, espliciti, decisivi. Questo intenso viaggio all’interno del proprio volto diviene il supporto per una riflessione in cui si specchiano le tessere psicologiche di un presente fatto di inaudite contraddizioni e di palpitanti speranze, di coscienza e smarrimento, di contrastanti dati esistenziali” [Catalogo, Spazio d’Arte, 1982]. E sarà Paolo Bellini (1985) a individuare nel Volto che dalle incisioni di Togo scruta “da fuori” la composizione, più che una reminiscenza dei suoi stessi autoritratti, un simbolo grafico della memoria che rievoca, quella che assume il paesaggio raffigurato in un silenzio atemporale. Intuizione ripresa e sviluppata da Lucio Barbera (1991), che nel motivo del Volto affiorante in un’atmosfera mitica ritiene “sfondata” la superficie del foglio e creata una nuova spazialità.

Anche Tommaso Trini afferma che Togo dipinge “da tempo i luoghi sconosciuti di un paesaggio […] le cui apparenze piene di nicchie e di penombra altro non sono che l’altra faccia dell’interiorità, che lui scandaglia con una foga introversa alimentata dal colore. […] La sua è in verità una pittura della psiche”. E concludeva poi: “Pittore dei lunari labirinti dell’animo, Togo è ambrosiano mediterraneo. […] Nei suoi Paesaggi mediterranei agiscono altrettanto magneticamente l’espressionismo nordico e la penombra” [Catalogo, Galleria Bonaparte, MI, 1992]. I lavori più recenti di Togo, secondo Rossana Bossaglia, stanno sul confine fra figurativo e astratto. Ma c’è sempre una “figuratività” recuperata attraverso la memoria nelle sue campiture cromatiche. D’altra parte dirà egli stesso: “Matisse e Picasso sono gli artisti con cui dialogo quotidianamente, entrambi mediterranei e solari” (1996).

ALFREDO SANTORO (Messina 1939) insegna educazione artistica nella città natale. Oltre alle esposizioni nelle varie località isolane, c’è da registrare anche un’esibizione a Kyoto nel 1989.                                                                                                                                              

Franco Solmi [in Catalogo, La Palazzata – Libreria dello Stretto, Messina, 1987/88] afferma: “Non v’è dubbio che le suggestioni dell’espressionismo tedesco […] hanno avuto notevole importanza per lo sviluppo ultimo del lavoro di Alfredo Santoro. Mi sembra comunque che la sua immagine […] sia proprio la negazione dell’urlo espressivo e della esagitazione formale caratteristica della pittura dei nipotini antichi e moderni della Brücke. Mi sembra che anche Lucio Barbera, che si è occupato […] del lavoro di Alfredo Santoro rivelandone i punti di riferimento e gli antecedenti in Schmidt-Rottluf, Heckel, Müller, Nolde e riscontrandone le tangenze coi moderni portatori del ‘selvaggismo’ tedesco, abbia voluto sottolineare l’uscita del pittore siciliano dall’area di questi condizionamenti […]. Se dovessi fare il nome di un artista i cui modi linguistici e le cui soluzioni formali non hanno alcun riflesso nel lavoro di Santoro ma con il quale il pittore siciliano rivela indefinibili consonanze e affinità, ebbene farei il nome del Klee più magicamente simbolico. […]

Se qualche anno fa queste testimonianze e confessioni liriche s’affidavano a contesti pittorici vagamente tenebrosi, a cupe ossessioni, alle simbologie dei trionfi della morte e della distruzione atomica, al romanticismo tragico e allucinato di Baudelaire, nelle ultime opere s’avverte come il fiorire di una nuova felicità, di un canto d’infanzia che ricorda assai più il sognante primitivismo di Klee che non i ruvidi goticismi dei neoespressionisti di Germania”.                                               

Caterina Giannetto afferma poi [in Giardini mediterranei, estasi del colore, Magika Ed., ME, maggio 2004 ]: “Egli giunge a una composizione di colore e non di forme o di figure, è un’emozione coloristica, una ‘gioia di dipingere’ di chiara ascendenza matissiana, un’esaltazione di giochi cromatici, nutrita spesso di numerosi particolari decorativi. […] Sono stralci di una natura non fotografica, ma filtrata, non realistica, ma visionaria. […] Santoro avverte in parte anche il richiamo di Paul Klee, del quale non sposa l’astrattismo, ma ne mutua quel ‘canto d’infanzia’ tanto presente in tutta la sua ultima produzione. E del menzionato esponente del Blaue Reiter l’artista siciliano apprezza soprattutto il potere evocativo del ricordo in grado di disgregare, riunire e combinare le immagini secondo nessi alogici e asintattici. […] Spesso le sue opere […] creano un collage: antico amore di Santoro, mutuato non solo dai cubisti ma anche dallo studio di Robert Rauschenberg, sua altra fonte artistica di riferimento”.       

TANO SANTORO (Naso [ME] 1940) ha avuto i primi rudimenti da un pittore locale, D’Ascola, che gli permetteva d’affiancarlo en plein air. Nell’àmbito del premio di pittura di Capo d’Orlando, conobbe ed ebbe lezioni da Saro Mirabella e Armando Pizzinato e soprattutto, per la grafica, da Tono Zancanaro, che già Raffaele De Grada considerava come “uno dei più straordinari inventori di forme che egli avesse conosciuto” (1986). Dal 1962 si trasferisce a Milano e farà un training pittorico e d’esperienza presso la studio di Giuseppe Motti. Tiene la prima personale a Piacenza nel 1967.

Sempre Raffaele De Grada afferma (1980) che in Tano Santoro “l’assoluto della forma ha sempre avuto la tenerezza che ci tiene lontano dallo schema. Eppure il suo lavoro è di studio, di atelier. Non conosco un altro artista più lontano dall’improvvisazione”. Dario Micacchi sostiene (1991) che in lui “il segno spesso appare come la traccia del meteorite che ha colpito o ha strisciato violentemente la forma”. Giorgio Seveso aggiunge (1994): “Non è tanto la rappresentazione riconoscibile di figure o forme reali ad interessarlo, quanto piuttosto la definizione, attraverso l’autonoma fascinazione del dipingere, delle vicende amplissime e sempre diverse del rapporto tra la nostra sensibilità e i materiali emozionali della pittura”. A sua volta Nicola Miceli (2003) parla nella sua pittura di “presenze […] portatrici d’una eroica determinazione a durare almeno quali tracce o graffiti stenografici della corporeità, nel loro precario consistere; bisogna cogliere e assimilare la febbricitante fisiologia di queste tessiture ora rade ora fitte della materia, nel tentativo di contenerne la deriva verso l’indeterminato nulla o tutto del cosmo”.     

Sotto un certo aspetto, Santoro è un incisore anche nella pittura. Non soltanto perché in essa tende alla monocromaticità, o comunque su una sensazione di fondo di un certo colore poi assembla gli accordi degli altri che più si confanno sul piano del pathos e su quello dell’armonia compositiva, ma perché la mano “agisce” alla stessa maniera: preso e compreso da quell’emozione scatenante, fissa per linee, tratti, per segni le sue addizioni (materiche persino), come sulla lastra incide segmenti con veemenza. E se i suoi filamenti e le sue sbavature, a volte persino “macchie” lanciate in successione, possono in parte richiamare la tecnica dei divisionisti, è la pittura gestaltica dell’Informale e dell’Espressionismo astratto ad avvicinarsi maggiormente. Il suo espressionismo segnico non è più rivolto a “narrare” fatti, ma a “esprimere” emozioni.

GIUSEPPE BURGIO (Caltanissetta 1941) ebbe il suo primo contatto con la figurazione a sette anni, quando incontrò il “madonnaro” Matteo Presti. Fa gli studi al Liceo Artistico di Palermo e poi all’Accademia di Belle arti di Roma. Per lungo tempo fa la spola fra la sua città e Roma, ma dal 1978 si trasferisce a Reggio Emilia. Dopo un lungo periodo di assenza dalle esposizioni, riprende l’attività nel 1990, con una mostra organizzata dal Comune di nascita, presentata da Vincenzo Consolo. Da lì in avanti esporrà in varie città. Burgio ha sempre sottolineato, nella sua pittura, una nozione di sicilianità rievocata dalla memoria. Ma di quale sicilianità si tratta? Già Giorgio Segato (2002) parlava di “enfatizzazione e intensificazione” del dato naturale. Infatti i famosi ulivi di Burgio, i suoi paesaggi e le sue nature morte, non s’appartengono al rispecchiamento -  effettuale, avrebbe detto Leonardo Sciascia – di un dato reale (anche quando la sua pittura viene accostata a Guttuso, non c’è nulla del suo realismo, ma tutt’al più solo un poco della vivacità fauve del suo colore), ma sono immagini che riassumono le “caratteristiche peculiari di un genere, di una specie”, sono cioè una tipizzazione di una certa Sicilia.

Vagheggiamento e idealizzazione di una realtà scomparsa, perduta per sempre, che “ritorna”, o almeno tenta, attraverso il filtro memoriale, e in questo ritorno si scorpora – può persino sembrare un paradosso – di ogni peculiarità e particolarità dell’esistenza concreta. Si tratta di una Sicilia pietrificata dalla sguardo di Medusa, perché caricata di tratti ripetitivi e sempre uguali a se stessi in quanto appunto solo mentali. L’espressionismo cromatico di Burgio, che ha abbandonato ogni sfumatura di tonalità a favore di accostamenti sempre più timbrici e dissonanti, è proprio la traduzione diretta di questa fissità astrattivamente mentale. Dal tipo si passava così allo stereotipo, che nasce “dall’uso rigido e cristallizzato del quadro di riferimento” (U. Galimberti, 1991).

Per sfuggire alla variazione incontrollata, Burgio passa, nella ultima fase della sua pittura, alla serie dei rifiuti, cioé gli scarti e i residui delle attività urbane e cittadine (anche gli “sfasciacarrozze”, con i componenti meccanici e metallici, accentuano vieppiù la lontananza dall’ambiente naturale). Con un sottinteso polemico, la sua denuncia ecologistica tende infatti a riaffermare l’umano e a inverarlo in nuove costruzioni e rapporti civili.   

MIMMO GERMANA’ (Catania 1944 – Busto Arsizio [VA] 1992) fu un autodidatta e fu lanciato da Achille Bonito Oliva nell’àmbito della Transavanguardia, negli anni Ottanta, insieme con Cucchi, Chia, Clemente, Paladino, De Maria. Morì di Aids a soli quarantott’anni. La sua è una pittura di stampo popolaresco, “ingenuo” (o falsamente tale), con forti accentuazioni simboliche. Tale carica simbolico-fantastica l’ha fatto definire “lo Chagall italiano”.

Il suo espressionismo mediterraneo e il suo primitivismo gli valsero comunque una partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1980. La sua tematica prevalente concerne figure femminili dal volto ovale, spesso fluttuanti nello spazio, e paesaggi dagli alberi stilizzati che contrastano col fondo. Di lui dice Francesco Gallo, forse il suo maggior critico: “Una fantasia abbagliante, colorata, rapida, di gialli, di rossi, di blu, quasi disarticolati dalla rapidità d’impatto, con cui vengono sbattuti sulla tela […] a conferma del fatto che la sua gestualità è parte integrante di una personalità, di un habitus e non della mancanza di regole d’arte.

Quella di Germanà è, nonostante tutto, […] una sintassi rigorosa della sua scelta espressionistica, della scelta per la pittura d’impatto, che è la più adatta al suo stile onirico e trasognato, di una pittura […] in cui le tonalità sono bandite e sembra debbano uscire le sagome di Matisse e di Feininger, le pose femminili di Max Pechstein, con il loro carico alcolico e sessuale, in alcuni momenti anche la cromatica di Jawlensky, più che quella dei suoi compagni di viaggio degli anni Ottanta, Chia, Cucchi, Paladino, Clemente, De Maria”.   

PIETRO MANTILLA (Messina 1949) si chiama all’anagrafe Mantineo e assunse l’attuale nome d’arte quando, a ventitré anni, decise di dedicarsi esclusivamente alla pittura, derivandolo dalla mantellina che portava da bambino (ma nell’autoritratto del 1982 usato come copertina del catalogo edito da Magika nel 2005, in cui il volto si staglia contro il fondo scuro, la mantellina lo fa assomigliare a un caballero spagnolo del Seicento). In tale catalogo Katia Giannetto lo descrive così: “Capelli ricci rosso corvino, corporatura robusta, mani nodose”.

Sempre Katia Giannetto parla per la sua pittura di “involgimento, processo opposto allo svolgimento”, in quanto egli “liberamente ‘involge’, cioé non esplicita, ma implicita un tema, un’idea sulla tela”. E l’osservazione, più che una battuta, ha una sua pregnanza in campo psicologico.”Mantilla - prosegue la Giannetto - è attratto anche dai Preraffaelliti, soprattutto da Dante Gabriel Rossetti, e questa ricerca di semplicità e di spontaneità si coniuga […] con la menzionata poetica naïf, lambendo sentieri cari a Henry Rousseau il Doganiere. […] La lettura delle sue immagini - tuttavia - provoca smarrimento, disagio, dubbi, a volte scandalo e repulsione”. Sostiene poi la Giannetto che “il disegno è l’emblema di tutta la vena creativa di Mantilla, il quale adotta, come per i quadri, una tecnica mista che si avvale non solo del gessetto, ma anche del lapis, dei pastelli, della tempera”. Così “la deformazione di oggetti, membra, muscoli, corpi umani, si concretizza sulla tela in composizioni difficili da leggere con parametri meramente figurativi. […] Mantilla risente, più o meno inconsciamente, di Pablo Picasso. […] Singolari affinità di contenuti e di forme si rilevano anche fra Mantilla e Francis Bacon, ambedue presentano la stessa visione sofferta e angosciata dell’uomo, gli stessi corpi deformati, quali frutti degenerati della società contemporanea”.    

Giorgio Seveso [in Catalogo, Gall. Ciovasso, MI, giugno 2000] afferma che si tratta di “un artista che, apparentemente, non ha in pittura proprio nulla di siciliano. […] La sicilianità di Mantilla si allarga, infatti, per il tramite di una intensa sobrietà meditativa, a uno spleen più universale, fatto di malinconia umana che non ha confini di province o regioni. C’è in questi suoi quadri aspri e ieratici dalle anatomie volutamente sgraziate e incerte, carichi di pathos e di simboli come per l’ambientazione di un tempio primitivo, una sorta di teatralità lirica, di suggestiva ‘messa in scena’ che prende la sua impronta profonda da un sentimento decisamente drammatico dell’esistenza. Ne risulta il senso di un estraniamento, di un distacco, di una distanza […] come in una specie di crepuscolo metafisico”. Da parte sua Teresa Pugliatti [in Mantilla (1974-1985), Gall. Orientalesicula, ME, maggio 2007] sostiene che si ha in Mantilla “una ricerca che scarnifica l’immagine fino ad una apparente schematizzazione. Che è in fondo sintesi mentale della realtà […]. Ma quando lo scavo sta per diventare drammatico, Mantilla escogita un’idea giocosa e pone, per esempio, accanto alla figura, o sulla figura stessa, un particolare bizzarro, o un oggetto misterioso che ne attenua la realtà, trasferendola in una dimensione onirica e/o simbolica”.                                                                 

Che Mantilla sia un malinconico-saturnino, che s’avvolge su se stesso in deliri introspettivi, lo si può desumere anche dalla tavolozza dei dipinti che vanno dal 1984 al 1999 (già presentati alla Ciovasso di Milano): colori scuri, tristi, soffocati e tendenti alla monocromaticità. Lo strano è che anche in tale periodo la sua produzione presentava opere dai colori più caldi e solari (almeno in certi “particolari bizzarri”, come dice la Pugliatti), mentre successivamente si aprirà a tonalità più accese e a un impiego più accentuato dell’azzurro. La sua introspezione – che quando si associa alla deformazione figurale può retrocedere fino a richiamare un manierismo da “talpa” alla Pontormo, come in Nuda appoggiata – bene si sposa a volte con la preferenza di particolari temi simbolistici, intendiamo quello storico di fine Ottocento, come nel ciclo della Salomé, sul quale si è espressa a chiare lettere Anna Maimone [in Catalogo, Gall. Viscontea, Rho (MI), maggio 1998]: “Il fascino di Salomé diventa quello della perversione. […] E’ un’occasione per rappresentare il contrasto tra orrido e sublime, orrore ed eros. In Mantilla, come nei decadenti, il sublime non c’è: restano l’eros e l’orrore”.    

MAURIZIO CITTI (Catania 1959 – Ivi 2008) nasce nella città etnea un po’ per caso, perché avrà la residenza fissa a Genova, dove passerà l’infanzia e l’adolescenza. Tornerà a Catania in età matura, dopo aver girovagato per l’Italia e all’estero (Lione, Amsterdam, Bruxelles, Stoccarda), partecipando a varie collettive. Ha avuto una formazione da autodidatta, anche se frequenterà una scuola di pittura.

Di lui dice Claudia Giraud: “Se la tecnica a olio utilizzata nei suoi primi quadri ricalca la pratica impressionista del dipingere en plain air e ricorda la violenza postimpressionista di un Van Gogh, per esempio nell’uso virtuosistico della spatola […], col passare degli anni si precisa in una direzione nuova e più intensa dal punto di vista del colore, in coincidenza con un lungo soggiorno a Berlino, che lo segna indelebilmente. […] Per la conoscenza anche solo museale dei grandi maestri dell’espressionismo tedesco (Emil Nolde su tutti), dai quali apprende la capacità di liberare il colore da ogni funzione meramente descrittiva, per fargli assumere invece un valore espressivo autonomo, dal forte carattere emotivo. […] E’ radicata in lui una forte consapevolezza del senso di responsabilità sociale della condizione di artista, ed è per questo che la sua pittura ha assunto una figurazione drammaticamente coloristica dei grandi temi di interesse nazionale che hanno caratterizzato la politica italiana degli ultimi trent’anni”.

                                                                                                       Sergio Spadaro

 Milano, maggio 2009