Critica

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Mostra a Roma di Christian Hess

Fu Palermo a scoprire questo pittore della pace

Giuliana Mastrangeli

 

L’Ora – mercoledì 30 marzo 1983

 

Roma – Singolare pittore Christian Hess. Nato a Bolzano nel 1895, ma vissuto esule per l’Europa, pacifista convinto, assertore dell’internazionalismo dell’arte, ma vissuto fra due guerre fuggendo gli “incredibili furori hitleriani”; una vita grama e  infelicissima la cui testimonianza, invece, è affidata ad opere di smagliante presenza mediterranea, tedesco ma tuttora poco conosciuto in Germania (un po’ più in Italia dove nel dicembre 1974 la Regione Siciliana ha promosso su segnalazione di uomini di cultura una delle sue mostre retrospettive).

Proprio in questi giorni, a favorirne la riscoperta, l’Artmessage di Roma ripropone, in collaborazione con il Goethe Institut, oli, acquerelli e disegni di Hess del periodo tra il ’22 e il ’38, almeno di quel che resta  delle sue opere; di quelle che sono andate disperse o perdute in tutta Europa (dalla Svizzera alla Svezia), di quelle che hanno preso la via di collezioni non più rintracciabili, delle tante che per sopravvivere fu costretto a vendere senza firmare e di quelle (un anno di lavoro) che andarono bruciate nell’incendio del Glaspalast di Monaco nel 1931.

Ci sembra che sinora lo si sia ricondotto ai limiti, un po’ ordinari di saldezza realistica e di gusto per il colore e che la sua pittura sia ancora tutta da scoprire. Così scriveva nel ’30 il critico di una delle numerose mostre collettive cui Hess aveva partecipato in patria. “Traspira dalle sue opere un sentimento sereno e caldo per la natura e ed un non comune senso coloristico”, oppure nel ’30 in una mostra a Monaco: “Dimostra di saper portare la molteplicità della natura a forme semplici fortemente pittoriche. E’ di benefico effetto in raffronto col cerebralismo apparentemente problematico di altri pittori. Eppure…

Eppure al di là della facile retorica dell’uomo del nord innamorato del sud,  i colori di Hess sono quelli in un Mediterraneo rimeditato, sono quelli spessi, densi compatti di Carrà (gli stessi bianchi gessosi, le ocre, i neri grigi e violacei sia pure con frequenti bagliori rossi e rossastri e tutta la gamma dei verdi e degli azzurri): l’impatto con la figura umana  è quello, inconfondibile, tra il ’20 e il ’30 (del Picasso del periodo “classico” e soprattutto di Sironi) di quella pittura come scultura con figure assimilate a statue con negli occhi quella stessa fissa cecità: le donne, poi, incantate in una loro interrogativa malinconia: “Baronessa con veletta”, “Donna con cappello nero”, “Modella nell’atelier”, e quasi mai raffigurate per intero e raccolte su uno sfondo ben strutturato, ma colte da un obiettivo smagato che osi campi inconsueti, quasi sempre troppo stretti e corti.

Ecco: stretti e corti. Le figure umane, i paesaggi e persino le nature morte e le composizioni in cui Hess  fa l’occhiolino a Braque ed a Picasso, più a Braque che Picasso,  sembrano rinserrati a forza nei limiti artificiali della tela e del foglio, al di là della logica ineliminabile della cornice; indoviniamo che i corpi vorrebbero spandersi liberamente continuare a raccontarsi. La sensazione, superata l’immediata leggibilità del linguaggio, è di un leggero senso di disagio come si avrebbe nell’osservare la realtà un po’ troppo da vicino.

Ritratti femminili, paesaggi, scene popolari affollate di quella varia umanità siciliana che fu tanto cara ad Hess, sembrano parti mal ricomposte d’un solo affresco. E non a caso l’affresco fu. tra i tanti, il suo interesse prevalente. Proprio in quegli anni non aveva scritto Sironi “La pittura murale si pone davanti al quadro moderno come il tutto alla parte”?

Solo l’opera affettuosa della sorella, che aveva sposato un italiano e viveva a Messina,  salvò durante l’ultima guerra buona parte degli oli e dei disegni di Hess ed ha permesso che la perdita delle sue opere non fosse troppo rilevante. Il rapporto con la sorella fu, senza dubbio, il legame più solido di tutta la sua esistenza e nella spola Monaco-Messina con lunghi soggiorni ininterrotti, gli fece ripercorrere non solo simbolicamente quella che è stata (e che è) la polarità di tutta la pittura europea, lo spirito mediterraneo ed il plasticismo italiano e il misticismo gotico e barocco. Se non si dimentica questo sotterraneo conflitto ecco che “quel senso della natura” rivela un’ambiguità insospettata, le scene di vita siciliana, il facile folklore dell’ ”Indovino” e del “Ladro e carabiniere”, degli uliveti, dei pescatori son forse, anche facili caratterizzazioni da cui un pittore più sofisticato si sarebbe astenuto, ma sono ben lungi dall’essere soltanto la riproduzione, sia pure intensa, di un paesaggio.

Nel sole attonito della Sicilia un fermento rivela una sofferenza al di là dell’apparente leggibilità del soggetto. Non a caso in “Asinello e fichidindia” e in “Caprone e fichidindia” le foglie ed i cieli si deformano in una contorta grafia espressionista. Anche Van Gogh dipingeva alberi, campi, facce. Ma il trasalimento del pennello può rilevare il trasalimento dell’anima.

E se i dati biografici possono illustrare e commentare le opere (la grave malattia ai polmoni, lo scioglimento dell’unico gruppo artistico cui aveva aderito, Juryfreie, il Fuori giuria accusato nel ’33 di essere un’unione culturale bolscevica, e soprattutto i due tentativi di suicidio) ci sembra quanto meno grottesco parlare per Hess di “serena pittura mediterranea”. Dove anche la sua morte sotto il bombardamento di Innsbruck nel 1944 si pone come l’epilogo più drammaticamente coerente di una vita tanto travagliata. A soli 49 anni.   

                                                                                  Giuliana Mastrangeli 

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Due oli di C. Hess dipinti a Messina: “Ladro e carabiniere” del 1934 e “L’Indovino” del 1933. Sono gli anni in cui l’artista, accusato di bolscevismo nella Germania nazista,  si trasferisce a Messina presso la sorella Emma, sposata ad un italiano. Mentre in Germania avrebbe potuto dipingere solo di nascosto, qui ritrova una sua libertà di espressione  e dipinge un nutrito numero di opere ispirate al paesaggio e all’umanità dell’isola. Nel ’34 si sposa con una svizzera, Cecilia Faesy, e insieme a lei lascia Messina per la Svizzera, Ma nel ’36 ritorna nuovamente in Sicilia con la moglie, con la quale però il legame si va allentando e presto si spezzerà. Una profonda crisi spirituale lo porta sull’orlo del suicidio, ma è confortato dalla sorella e trova il coraggio di ripartire. La Sicilia gli resterà sempre nel cuore. Nel 1974 la Regione Siciliana, insieme all’Azienda turismo e il Goethe Institut, organizza a Palermo una mostra retrospettiva delle opere che riporta l’attenzione della critica su quest’artista tormentato che voleva dipingere per la pace e che fu invece costretto a vivere tra due guerre e sotto due dittature.